Dopo la catastrofe elettorale delle regionali in Sardegna, potrebbe avvicinarsi rapidamente per Luigi Di Maio il momento della resa dei conti con il suo Movimento ma anche con l’ingombrante alleato di governo Matteo Salvini. Il pomo della discordia è sempre il progetto dell’Alta velocità ferroviaria, che però è solo un capitolo di un contenzioso ben più ampio: si tratta del bilancio della presenza e della permanenza al governo di una forza politica nata sull’onda della protesta e che stenta ad indossare i panni della responsabilità istituzionale, con tutto ciò che comporta. Fino a ieri, cioè fino al tracollo elettorale in Sardegna, Di Maio era riuscito a mantenere il controllo della situazione e a rinviare fino a dopo le europee una verifica dei costi e benefici non solo del progetto Tav ma dell’evoluzione “governista” dei Cinque Stelle. Ora il rinvio non è più possibile: le elezioni cadranno fra novanta giorni e l’attesa è troppo lunga per restare ancora in apnea. Aspettare altri tre mesi o poco meno significherebbe affossare il progetto (cosa che molti grillini vorrebbero), ma anche escludere l’Italia dal circuito della governabilità europea, rischiando, ancor prima, di essere abbandonati alla deriva da una Lega sempre più rinvigorita.
Il presidente del Consiglio Conte ha cercato di togliere le castagne dal fuoco al suo vice dando una mano al partito che tutto sommato otto mesi fa lo aveva officiato all’alta carica. Me ne occupo io, aveva detto, indicando due paletti: la Tav si farà ma costerà di meno, e con i soldi risparmiati si finanzieranno opere pubbliche nel Mezzogiorno. Il tutto nell’ambito di un recuperato accordo di collaborazione con la Francia che è il partner industriale per l’Alta velocità ma anche un partner strategico nel Mediterraneo, a cominciare dalla Libia. Ieri un’ampia intervista di Conte alla “Stampa” delineava il quadro di questa rinnovata intesa, a meno di un mese dal clamoroso richiamo dell’ambasciatore a Roma, che tuttavia non aveva interrotto un costante aggiornamento delle reciproche posizioni.
Però qualche cosa deve essere andato storto. Intanto un accordo “politico” con Parigi non deve andare a genio a Salvini che considera Macron il nemico da battere alle prossime europee; ma soprattutto se l’accordo deve passare per il via libera comunque mascherato alla Torino-Lione, il Movimento Cinque Stelle rischia l’implosione; e se finora Di Maio è riuscito a far ingoiare ai suoi le trivelle in Adriatico, il Tap e l’Ilva, ora l’oggettivo indebolimento elettorale gli renderebbe impossibile gestire l’ennesima sconfitta su un tema identitario più d’ogni altro. Nei giorni scorsi Beppe Grillo ha detto che sul tunnel in Val di Susa non si può transigere; Roberto Fico ha ricordato che il M5S è “costituzionalmente contrario” all’opera; e il silenzio di Alessandro Di Battista è più minaccioso di un ammutinamento.
Risultato: nel giro di poche ore, il presidente del Consiglio ha fatto marcia indietro; o meglio ha negato di aver mai aperto ad una trattativa per ridurre impatto e costi del segmento italiano della Torino-Lione, né di aver mai chiesto una revisione dell’analisi costi-benefici dell’opera. Dell’ipotesi di un accordo che consentisse di salvare capra e cavoli resta solo un vago accenno nel più puro politichese: il premier “non ha mai anticipato nessun giudizio, mentre ha sempre ribadito e ancora ribadisce che verrà presa, nella massima trasparenza, la migliore decisione possibile nell’interesse esclusivo del Paese e dei cittadini all’esito dello studio attento del dossier e del confronto politico che ne conseguirà”. Più oscuro di così? Ma intanto si prende tempo, e la resa dei conti si allontana.
di Guido Bossa