Dodici anni fa, la tragedia del viadotto Acqualonga. La sera del 28 luglio i Vigili del Fuoco intervennero sull’autostrada A 16 Napoli – Canosa per soccorrere i passeggeri di un pullman precipitato per oltre 30 metri dal viadotto, nel territorio del comune di Monteforte Irpino.
E il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco ha voluto ricordare quanto accaduto con un messaggio carico di dolore e memoria: “Dopo ore di lavoro senza sosta, furono estratti 10 sopravvissuti e recuperati 38 corpi senza vita. Oggi il nostro pensiero va a tutte le Vittime e ai loro Familiari. Per non dimenticare”.
L’INCIDENTE
Cento metri contro il guardrail, la caduta dal viadotto con un salto di 30 metri e poi lo schianto. Sono le sequenze dell’incidente del 28 luglio 2013 in cui hanno perso la vita 40 persone, a Monteforte Irpino. Le vittime viaggiavano a bordo del bus Volvo Bianco guidato da Ciro Lametta: il mezzo era partito tre giorni prima per un week end fuori porta, con tappa a Telese Terme e Pietrelcina, per poi fare ritorno a Pozzuoli, dove risiedeva la maggior parte dei viaggiatori. Il pullman però, a destinazione non ci è mai arrivato (LA RICOSTRUZIONE DELL’INCIDENTE. VIDEO).
Il guasto ai freni
Sono circa le 19.30 quando il bus percorre l’autostrada A16 Napoli – Canosa, imboccata al casello di Benevento, per dirigersi verso Napoli e poi a Pozzuoli. Superata l’uscita Avellino Est, i passeggeri avvertono sotto il pianale del bus strani rumori, via via più forti. Il mezzo supera l’uscita di Avellino Ovest e comincia la lunga salita in territorio di Monteforte Irpino. Passano i minuti, e i passeggeri chiedono all’autista di fermarsi e di controllare cosa stia accadendo, ma il viaggio prosegue. Superato un tunnel, un giunto dell’albero di trasmissione si rompe e trancia l’impianto frenante. Neppure il freno motore riesce a far rallentare la corsa del veicolo. Il bus non riesce a spostarsi sulla corsia di emergenza, urta varie auto, a oltre 100 chilometri orari. Poi urta per la prima volta la barriera del viadotto Acqualonga. Rimbalza, e poi tampona e sperona altre auto e ritorna contro la barriera che per la seconda volta respinge il mezzo pesante, che continua a urtare altre auto. L’ultimo impatto provoca il distacco della barriera, che si stacca dal cordolo del ponte e precipita. Il bus cade, con l’avantreno che si incastra nel terreno della scarpata Acqualonga. Nella scarpata c’è un’abitazione e gli abitanti chiamano subito i soccorsi. Anche chi si trova sopra al viadotto, negli stessi istanti, lancia l’allarme. Poco dopo squadre di soccorritori raggiungono la scarpata da tutta la Campania e anche dal Lazio e dalla Puglia. I feriti vengono trasportati in ospedale. Dopo la conta dei morti, quello di Monteforte Irpino diventa il più grave incidente stradale della storia italiana. La vittima più giovane è Simona Del Giudice, di 16 anni, morta una settimana dopo lo schianto. Anche il padre e la sorella della giovane sono fra le vittime. Così come l’autista del bus. I funerali solenni si svolgono il 31 luglio, nel palazzetto dello sport di Pozzuoli, alla presenza anche delle più alte cariche dello Stato.
IL PROCESSO
Controlli insufficienti e mancato rispetto della convenzione con lo Stato, con responsabilità dei vertici aziendali. Le accuse più consistente mosse dal Procura Generale alla gestione di Autostrade per l’Italia (Aspi) – per la strage del 28 luglio del 2013, quando un bus precipitò dal viadotto dell’Acqualonga nella zona di Monteforte Irpino, in provincia di Avellino, causando la morte di 40 persone – reggono anche in Cassazione. La Quarta sezione penale ha depositato la sentenza che ha chiuso la vicenda giudiziaria sul cedimento della barriera che provocò l’incidente. E che ha portato in carcere anche l’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, condannato a sei anni.
Nella sentenza, i giudici della Cassazione hanno esplicitato in maniera evidente quali erano i doveri di Autostrade per l’Italia: «Tutte le questioni inerenti ai controlli sull’efficienza della rete e alla conseguente manutenzione, intesa nel senso ampio sopra esplicitato; con conseguente non delegabilità dei relativi compiti e del mantenimento, in ogni caso, dei compiti di alta vigilanza rimessi alla figura apicale». Nelle 256 pagine, la Cassazione ha affrontato le numerose questioni avanzate dal pool di avvocati della difesa, confermando tutte le condanne decise in Appello e rideterminando solo quelle per altri due imputati: una dipendente della Motorizzazione e il proprietario del bus su cui viaggiavano le vittime.
I giudici, ad aprile scorso, avevano riformato il verdetto di secondo grado per Antonietta Ceriola e Gennaro Lametta limitatamente alla misura della pena: 4 anni per la prima, 9 per il secondo. Avevano, invece, rigettato i ricorsi presentati dai legali di Gianluca De Franceschi, Nicola Spadavecchia, Giulio Massimo Fornaci, Michele Renzi, Bruno Gerardi, Paolo Berti, Marco Perna, Giovanni Castellucci, Gianni Marrone, Riccardo Mollo. Tra le questioni più rilevanti, la Cassazione ha rilevato che gli imputati di Aspi rivestivano una «posizione di garanzia» per la manutenzione della rete autostradale. Inoltre, chi è in posizione apicale non può delegare «le funzioni strettamente attinenti ai profili strutturali dell’organizzazione – è precisato nella sentenza – e direttamente coinvolgenti le scelte strategiche di fondo dell’organizzazione aziendale».
In questo caso, secondo la Cassazione, l’amministratore delegato di Autostrade per l’Italia non è responsabile solo per «occasionali disfunzioni». Ma ci sono state «gravi carenze organizzative, imputabili, a monte, alla politica degli organi di vertice». Del resto già i giudici della seconda sezione della Corte di Appello di Napoli avevano ribadito come «la programmazione in materia di riqualificazione delle barriere bordo laterale atteneva proprio alla “area strategica” della politica societaria , in special modo, dove si consideri che la gestione della rete autostradale in concessione costituiva l’attività principale del concessionario e che nessuna norma di legge o regolamentazione interna esimeva dal corretto adempimento di tali obblighi l’amministratore delegato».
La tesi, quindi, sostenuta dai magistrati della Procura di Avellino, il procuratore Rosario Cantelmo e il pm Cecilia Annecchini nel corso del processo di primo grado e nei motivi di impugnazione del verdetto emesso dalla corte di Appello irpina, è stata confermata dai giudici della seconda sezione della Corte di Appello di Napoli e dalla Cassazione. Al vaglio dei supremi giudici si è arrivati dopo che la Corte di Appello di Napoli, nel settembre del 2023, aveva inflitto sei anni a Castellucci che in primo grado era stato assolto. Stessa pena anche per il direttore generale dell’epoca Riccardo Mollo e per i dipendenti di Aspi Massimo Giulio Fornaci e Marco Perna.