Vera Mocella
In un mondo in cui il bilancio della violenza perpetrata contro le donne diviene sempre più frequente ed insidiosa, quasi scontata nella “banalità del male” che sembra caratterizzare questo tempo, parlare della violenza, anche di quella sommersa, contro il genere femminile, diventa una sorta di imperativo morale. Ancora una volta, la ricorrenza del 25 novembre, la giornata contro la violenza perpetrata nei confronti del genere femminile, registra una escalation drammatica di femminicidi. In un arco temporale esiguo, di neppure trenta giorni, sono state uccise tre donne – a Torino, a San Severo e a Civitavecchia. Alcuni espedienti messi in atto per tentare di arginare questa brutalità, come quello del braccialetto elettronico, si sono rivelati inutili, inefficaci. E’ questo il drammatico caso di Celeste Palmieri, uccisa nei giorni scorsi, a San Severo, in provincia di Foggia. Il braccialetto del marito si è attivato, ma non altrettanto il suo cellulare riposto nella borsa, nonostante il sollecito intervento della polizia. Nel bombardamento massmediatico attuale, tra le pene comminate a Turetta, colpevole dell’efferato omicidio alla giovanissima Giulia Cecchettin, e l’ergastolo dato al compagno di Giulia Tramontano, privata della vita ed anche del miracolo del diventare mamma, icona tragica delle “donne che amano troppo”, riportiamo l’acuta e profonda analisi della docente di Storia contemporanea, alla Pontificia Università teologica dell’Italia Meridionale (sezione San Luigi), Anna Carfora, rilasciata al “Regno delle Donne”. «Innanzitutto, la connessione tra il patriarcato e la violenza di genere non deriva da una visione ideologica, ma è un fatto storico. È la storia che mostra come, a monte della violenza sulle donne, ci sia il patriarcato. Siamo, infatti, eredi di una lunga e radicata cultura della relazione coniugale, in cui il diritto del maschio sulla femmina – incluso quello sessuale – era ritenuto sacrosanto, e fondato sulla superiorità di lui e nella quale al marito spettava, sempre in ragione della sua superiorità, l’esercizio della violenza correzionale nei confronti della moglie: «Prendi il bastone e battila molto bene», si intitola un paragrafo di un libro la cui lettura mi pare altamente consigliabile a tutti (Marco Cavina, Nozze di sangue. Storia della violenza coniugale, Laterza 2014 [edizione digitale]). Le donne di oggi sono, dunque, le discendenti di un popolo quasi muto e disarmato di “malmaritate”. E i maschi “narcisisti” di oggi, cos’altro sarebbero se non eredi di uomini dispotici, che non vogliono mollare il predominio? Non sa il ministro che non basta un nuovo diritto di famiglia, non bastano secoli per spazzare via questo lascito, tutt’altro che residuale, come invece lui sostiene? Non ritiene che conoscere un po’ di storia, ci aiuterebbe a capire che l’ideologia non c’entra proprio nulla? Anzi, non è invece ideologico l’atteggiamento di chi evoca continuamente lo stigma della sinistra sui fatti e sulle idee e considera, solo quella, una posizione ideologicamente viziata? Evocare il fantasma del “passatismo” è quanto meno incauto perché il passato persiste, ancora e vivo e vegeto, fra noi.». Altra stoccata della Carfora, sulla colpevolizzazione strumentale degli immigrati, comodo caprio espiatorio per la lobotomizzazione del pensiero, per cui il diverso, l’alieno, l’estraneo è la quintessenza della malvagità, cliché abusato da tanta ideologia retrograda, contaminata da un retaggio patriarcale. «Quanto all’incremento delle violenze di genere attribuito agli immigrati, si vadano a guardare le cifre e le si leggano in maniera non strumentale: secondo la Direzione centrale della Polizia criminale, le violenze sessuali commesse dagli stranieri, nel 2023, sono state il 28% del totale, il dato è stabile da alcuni anni, e non è possibile estrapolare il dato relativo ai clandestini. Piuttosto, chiediamoci come mai – sono dati ISTAT del 2014 – solo il 4,4% delle cittadine italiane, stuprate da connazionali, abbia denunciato la violenza, mentre la percentuale salga al 24,7%, nel caso in cui l’aggressore era straniero? Si tenga comunque presente che è riduzionistico individuare nello stupro, la forma principale della violenza di genere. Sempre la storia ce lo mostra, lo stupro non è che una delle forme della violenza di genere. E tutte le forme di violenza di genere sono espressioni del dominio maschile, dunque del potere degli uomini sulle donne: in altri termini, del patriarcato. Ma evidentemente il patriarcato, secondo Valditara, non c’entra nulla con la morte di Giulia Cecchettin e delle innumerevoli altre che l’hanno preceduta, seguita. E che, purtroppo, la seguiranno, a maggior ragione se continuiamo a mettere la testa sotto la sabbia, e a stornare il problema, proiettando sull’altro – lo straniero “diverso” da noi – “il nemico”, senza affrontare a tutti i livelli, anche educativi e religiosi, oltre che politici, il nucleo profondo del problema.»