di Stefano Carluccio
Andarsene è stato, per decenni, un destino comune a molti irpini. Una lunga onda migratoria che ha attraversato il tempo e le generazioni, spingendo donne e uomini verso le fabbriche del Nord, i cantieri svizzeri, le comunità italiane in Argentina, in Canada, in Germania. Chi partiva lo faceva spesso con la promessa del ritorno: una casa da costruire “giù”, una pensione da godere in patria, le ferie d’agosto da passare nel paese natale. In tanti hanno mantenuto quella promessa. Ma oggi c’è chi, pur partendo dalle stesse radici, sceglie una strada diversa: non tornare più.
Non si tratta solo di una scelta logistica. Non è la distanza geografica a segnare il confine, ma quella emotiva, simbolica, culturale. Vivere senza tornare significa, per alcuni, rompere consapevolmente il legame con la terra d’origine. Non per odio, non per dimenticanza, ma per un’esigenza profonda di libertà, di ricostruzione personale, di definizione identitaria. È una frattura silenziosa, spesso invisibile agli occhi di chi resta, ma che attraversa sempre più biografie.
Chi decide di non tornare più non lo fa necessariamente per disprezzo. Spesso il sentimento è più complesso: una miscela di riconoscenza e fatica, di memoria e di rifiuto. La terra d’origine viene custodita come parte di sé, ma lasciata fuori dalla nuova narrazione della propria vita. La provincia, con le sue regole implicite, i suoi giudizi, le sue aspettative sociali, diventa un luogo inabitabile per chi cerca spazi più larghi, modi diversi di esistere.
Molti di coloro che scelgono il distacco definitivo sono partiti per studiare o lavorare in contesti urbani, dinamici, multiculturali. Hanno trovato altrove possibilità, relazioni, prospettive. E tornare significherebbe, in qualche modo, rientrare in uno schema che sentono di aver superato. Per altri, il legame si interrompe a causa di ferite personali, familiari, sociali: conflitti, esclusioni, solitudini che rendono difficile anche solo il ritorno temporaneo.
Questo fenomeno riguarda soprattutto la seconda e terza generazione dell’emigrazione. Figli e nipoti di chi ha lasciato l’Irpinia negli anni ‘60 o ‘70, cresciuti in Svizzera, Germania o America Latina, spesso non sentono alcun richiamo verso la terra d’origine dei genitori. I racconti familiari si fanno sbiaditi, la lingua si perde, le tradizioni diventano folclore. La visita estiva al paese diventa, per alcuni, un peso. Altri, semplicemente, non si pongono più il problema: l’Irpinia non fa parte del loro orizzonte esistenziale.
Ma ci sono anche giovani nati e cresciuti in Irpinia, che una volta partiti scelgono di non tornare mai più. Non solo non rientrano a vivere nei paesi d’origine, ma evitano ogni occasione di ritorno: non tornano per le festività, non partecipano alle cerimonie familiari, non mantengono relazioni con la comunità di partenza. In certi casi, non ne parlano nemmeno con i figli, come a voler proteggere una nuova identità da una memoria troppo ingombrante.
Le motivazioni sono tante. C’è chi parla di soffocamento culturale, chi di isolamento sociale, chi di scarsa apertura mentale. Altri ancora raccontano di un dolore mai risolto, di un senso di esclusione che ha lasciato il segno. In molti casi, è la combinazione tra la necessità di emancipazione e l’incapacità della terra d’origine di accogliere il cambiamento a determinare la rottura.
Vivere senza tornare non significa rinnegare le radici, ma scegliere un altro modo di rapportarsi ad esse. È una forma di autonomia, talvolta una difesa, talvolta una rinascita. Ma è anche una perdita, per chi parte e per chi resta. I paesi dell’entroterra irpino perdono non solo residenti, ma anche storie, memorie, legami che non si trasmetteranno più. Le case restano chiuse, i cognomi si spezzano, le feste patronali si svuotano di significato per chi non ci torna più.
Nel discorso pubblico si parla spesso di chi torna: dei “cervelli di ritorno”, del turismo delle radici, delle seconde generazioni in visita nei borghi dei nonni. Ma si parla molto meno di chi, con decisione, sceglie di chiudere il capitolo Irpinia. Eppure, anche queste biografie andrebbero ascoltate. Sono voci che raccontano i limiti del modello sociale locale, ma anche i cambiamenti profondi del concetto di appartenenza. In un’epoca in cui le identità sono mobili, plurali, non è detto che il luogo in cui si nasce debba determinare chi siamo.
L’Irpinia, come molte aree interne italiane, vive una crisi di popolazione e di prospettive. Ma forse il punto non è solo riportare le persone indietro, quanto capire perché alcune non vogliono più tornare. Che cosa non ha funzionato? Quali bisogni non sono stati ascoltati? Quali margini di riconciliazione sarebbero possibili, se lo fossero? E soprattutto: può una terra farsi davvero casa, se non sa accogliere anche chi cambia, chi sceglie strade diverse, chi rifiuta di rientrare nei ruoli di un tempo?
Raccontare chi vive senza tornare serve a completare il quadro. Non si tratta di giudicare, ma di capire. Perché ogni partenza porta con sé una domanda. E ogni assenza racconta qualcosa che la presenza, da sola, non può spiegare.