“Volevo raccontare la vita di un uomo ‘normale’ con le sue paure e i suoi sogni, malgrado il successo. Sono state proprio le fragilità ad unirci”. Spiega così Tony D’Angelo il film “18 giorni” dedicato al papà Nino, proiettato nell’ambito del festival Laceno d’oro: “Era il mio modo per dire a mio padre ciò che non ero mai stato capace di dirgli, che è stato un grande papà”. Un itinerario che racconta i sacrifici di papà Nino, nato al quartiere San Pietro di Napoli, costretto a fare i conti con la povertà ma confortato sempre dalla famiglia, vero pilastro della sua esistenza, a partire da suo padre Antonio, per tutti Baffotto, dapprima impiegato in una fabbrica di scarpe, poi trasferitosi al Nord. “Mio padre si è ritrovato da piccolo a dover badare ai fratelli quando il padre è stato lontano. Ha senpre divuto fare i conti con qualcuno che gli puntava il dito contro”. Dall’amore per Napoli e Maradona alla scelta di lasciare la propria terra, dopo le minacce che lo avevano raggiunto, dalla sofferenza della depressione alla riscoperta da parte di chi lo aveva sempre etichettato come il re della sceneggiata. “Stare a Napoli era per me una sofferenza incredibile, ero schiacciato dall’essere figlio di Nino. Le cose sono andate meglio quando ci siamo trasferiti a Roma e pochi sapevano chi fosse NIno D’Angelo. Quando ho avuto i miei primi attacchi di panico ho capito, poi, che eravamo uguali”. E ricorda come “Mio padre voleva dare voce a coloro che non l’avevano mai avuta. La gente sentiva che era uno di loro”.




