Un volume che va a colmare un vuoto esistente nella ricostruzione della storia del brigantaggio, ponendo l’accento sulle vicende della banda brigantesca capeggiata da Gaetano Manzo, che seminò il terrore nei “Due Principati”, prima dal 1863 al 1866, poi fra il 1871 e il 1873. E’ il professore Francesco Barra, già docente di storia moderna presso l’Università di Salerno, introdotto dal direttore dell’Archivio di Stato Lorenzo Terzi, a porre l’accento sul valore di cui si carica il volume Flumeri 20 agosto 1873. La distruzione della Banda Manzo di Gianluca Amore, presentato ieri nell’ambito della rassegna libraria dell’Archivio di Stato di Avellino “I giovedì della lettura”. Barra ricorda come il brigantaggio non possa essere considerato un fenomeno unitario quanto piuttosto un universo magmatico e contraddittorio., soggetto a differenti interpretazioni “Un fenomeno che ci aiuta a comprendere la crisi della società meridionale, a partire da quella della monarchia borbonica. Segna un momento di rottura in cui si svelano personaggi fino ad allora rimasti nella penombra”. Barra evidenzia come “La banda Manzo sia caratterizzata da un modus operandi che rimanda al più antico banditismo, con sequestri di viaggiatori, rapine, estorsioni, da cui è assente in tutti i modi l’aspetto politico. Gaetano Manzo appare come un criminale, il cui nome si impone nel panorama internazionale, grazie al nascente giornalismo sia per le personalità sequestrate, a partire dai viaggiatori inglesi, sia per l’entità dei riscatti. La banda comprende quasi tutti i familiari del Manzo, originari di Acerno, che ostentano con forza la loro ricchezza. Si tratta di una rete ben articolata capace anche di reinvestire il denaro, frutto di sequestri e ruberie, un clan familiare in cui la fedeltà al capo esclude ogni delazione o abbandono, un nucleo ristretto affiatato, pericoloso e inafferrabile fino a che resta nelle sue roccaforti rappresentate dai Monti Picentini. Una rete che può contare anche su numerosi fiancheggiatori che fanno da spia o sono informatori. Dopo essersi consegnato alla giustizia nel 1881 evade dal carcere di Avellino e ritorna ad operare nella sua zona ma è chiaro che la fase storica del brigantaggio è ormai superata. così come è venuto meno il consenso sociale che aveva nella popolazione. Ad aiutare le forze dell’ordine a catturarlo sarà la complicità di Filippo Di Cecilia, anche lui un criminale, che lo attirerà in una masseria di Flumeri, fuori dalla sua area di appartenenza, facendogli credere di voler rapire il barone Grella. Qui sarà attaccato da bersaglieri e carabinieri”. A Gianluca Amore, Sottufficiale dei Carabinieri, in servizio dal 2014 presso la Direzione dei Beni Storici e Documentali dell’Arma, il compito di spiegare come nasca il volume, frutto di accurate ricerche presso istituti archivistici e bibliotecari civili, militari e religiosi, tra Avellino, Salerno, Roma, Torino e Bergamo. “L’esame dell’ampia documentazione consultata – come quella giudiziaria, custodita presso l’Archivio di Stato di Salerno, e quella delle Prefetture di Avellino e Salerno, conservata presso i rispettivi Archivi di Stato – mi ha consentito di ricostruire le ultime vicende della banda brigantesca capeggiata da Gaetano Manzo. Una storia che si intreccia a quella di Emilio Pallavicini, che già si era distinto nella repressione del brigantaggio nel Mezzogiorno, incaricato dal Governo di assumere la direzione generale del Comando Generale delle Truppe per la repressione del brigantaggio nelle province di Salerno, Avellino e Cosenza. O ancora Bartolomeo Casalis, di origini piemontesi, che tra il dicembre 1871 e il gennaio 1872 assunse l’incarico di Prefetto del Principato Ulteriore. Preso atto della statistica dei crimini commessi nella provincia, iniziò presto a nutrire il sospetto che il brigante Manzo si nascondesse nelle boscaglie tra Acerno e l’irpinia. Fino a Raimondo Pistis, di origini sarde che dal febbraio 1873 era al comando dell’Arma dei Carabinieri Reali. Il 20 agosto 1873 diresse l’operazione di polizia nell’agro tra Sturno e Flumeri per tentare la cattura del brigante. Amore ricorda come fu la fama criminale di Manzo a indurre i prefetti di Avellino e Salerno a chiedere al Ministero dell’Interno l’imposizione di una targa sul capobanda e sugli altri sodali per chi ne avesse favorito la cattura “Nel tentativo di cattura del brigante rimase ucciso da un manutengolo dei briganti, originario di Sturno Carlo Francesco Caccia, originario di Bergamo, giovane carabiniere in servizio alla stazione di Vallata. Nel 20 novembre 1873 gli fu concessa alla memoria la medaglia d’argento al valore militare”. Di qui la richiesta che a Caccia sia intitolata la stazione dei Carabinieri di Flumeri.