E’ un fiume in piena Alex Infascelli, regista di film come “Almost blue” e “Siero della vanità”, ospite al Circolo della stampa dell’associazione “Per Aenigmata”, nelle inediti vesti di scrittore. Racconta la sua scelta di scrivere un romanzo autobiografico “anche se non ho mai avuto il dono della scrittura. Nella stesura della sceneggiatura mi sono sempre affidato ad altre penne”, nata dal desiderio di non lasciare nel cassetto alcune idee che gli balenavano nella testa “Non avevo l’urgenza di raccontarmi anche perchè i registi non fanno altro che raccontarsi. Volevo solo tirare fuori delle idee. Ho pensato, poi, che se le avessi scritte in forma di sceneggiatura e le avessi trasformate in film sarebbero stati degli aborti. Il romanzo è nato da una chiacchierata con l’editore Carlo Carabba a proposito di un altro progetto. Siamo finiti a parlare dell’esperienza americana che avevo fatto e non la finiva più di parlare. Mi ha detto, questo è il libro”. Rivendica con orgoglio di non essersi mai piegato “a fare film non aderenti a ciò che avevo dentro anche se il mio percorso da regista non è mai stato uniforme. Del resto, la coerenza non è una virtù, a volte bisogna sgommare e cambiare direzione”.
Sottolinea come “Avevo scelto di non fare cinema, quello che è un mestiere di famiglia, mio nonno e mio padre erano produttori e registi. Ed erano tempi in cui fare i produttori significava passare dall’agiatezza alle visite degli ufficiali giudiziari che venivano a pignorare i beni. Mio nonno è stato l’inventore dei musicarelli, gli antenati dei clip musicali, ha collaborato con Rossellini. Mio padre ha prodotto film come ‘Febbre da cavallo’ e ‘La donna della domenica’. Ma la mia passione era la musica e così, dopo aver frequentato il liceo Virgilio, il più sovversivo della città, avevo deciso di fare il batterista ed ero fuggito a Los Angeles. Mi sono trovato catapultato in un “Nowhere”, un luogo che assorbe quello che hai dentro. E’ sorprendente come la parola “Nowhere”, che sta per nessun luogo, contenga al suo interno le parole ora e qui, “now” e “here”, come se quel ìnessun luogo’ fosse, invece, un luogo ben preciso. In realtà ho sempre voluto appartenere solo a me stesso ma portavo con me il senso di una mancanza, proprio come la zampa che manca al mio cane, Mouse, il mio alter ego. E’ un senso di solitudine che mi porto dentro, che scaturisce anche dalla perdita prematura di mio padre. A Los Angeles e poi a Seattle sentivo che ero a un passo dal successo ma non riuscivo a raggiungerlo. Così mi rivolsi a una sciamana armena, di cui avevo sentito spesso parlare. le chiesi cosa mi attendeva nel futuro, mi rispose che la mia missione era raccontare storie. E’ stato allora che ho incontrato l’eroina, sono diventato tossicodipendente e il paradosso è che l’eroina mi ha salvato, riportandomi alla strada del cinema. In quegli anni era sempre più difficile mantenere in vita una band, così ho dovuto lasciare”. Non nasconde la sofferenza per la sua storia di dipendenza che oggi appartiene al passato. Sono stato dipendente dalle droghe per 11 anni, ho capito che la persona che abusava di quelle sostaze non ero più io, ho smesso grazie ad una comunità”.
Una vita segnata da incontri, come ripete più volte, da quelli con Prince, Kurt Cobain e Bette Davis a quello con Mark, il regista di video musicali, che mi ha riportato al cinema. Poi la vittoria del David come miglior regista esordiente con Almost Blue “ho smesso di prendere droghe per il tempo delle riprese ma stavo male” e la delusione per il mancato successo del “Siero della vanità” “Ho fatto il cameriere. Non volevo tornare al cinema. Poi ho accettato di presentare una trasmissione per Mtv e mi hanno proposto di intervistare la moglie di Kubrick. E’ stato così che ho scoperto la figura di Emilio D’Alessandro, di origini irpine, autista e suo collaboratore per 30 anni, a cui Kubrick era molto legato. E’ nato così il documentario “S Is for Stanley – Trent’anni dietro al volante per Stanley Kubrick”, che mi ha consentito di tornare sul mercato e la serie ‘Mi chiamo Francesco Totti’. Dopo aver esplorato la figura femminile nei miei primi fim avevo bisogno di tornare all’identità maschile. Continuo a credere nella forza del disordine, che bisogna lasciarsi trasportare dagli eventi”. Quindi ricorda il legame con l’Irpinia e Napoli “Le mie origini mi riportano a Lacedonia. I miei familiari, poi, si sono trasferiti presto a Napoli, io stesso per un periodo alloggiavo a Lago Patria, poco distante dalla base della Nato, dove gli americani avevano ricreato una sorta di villaggio che ricordava le città staunitensi. Emilio D’Alessandro, l’autista di Kubrick, era irpino come Ralph Minichiello, il primo dirottatore di un volo a cui ho dedicato il mio ultimo film ‘Kill me if you can'”. Quindi annuncia la volontà di lavorare a un film tratto dalla sua autobiografia e a un seguito del romanco “Vorrei raccontare il periodo trascorso in comunità e la vittoria sulle droghe”. Ma si capisce che se continuerebbe a parlare all’infinito. Prezioso l’intervento introduttivo della professoressa Roberta De Maio che ha accompagnato i presenti nell’universo di Infascelli, ponendo l’accento sulla lucida autoironia che accompagna la narrazione, a volte dolorosa, dalla musica al rapporto col padre fino alla scoperta dell’America, sempre inseguendo il ritmo.