Di Carmine Di Gisi (studente della VA del Liceo Artistico – Istituto Omnicomprensivo “Manzi-Maffucci” di Calitri. Coordinatore dell’attività: Prof.re Vincenzo Fiore).
Che il mondo non sia equo non è una novità: inutile cominciare con qualche lapalissiana, prorompente frase ad effetto. Che non ce ne importi più di tanto, nemmeno. Che fatica scrivere un articolo sulla disuguaglianza economica, sembra quasi non si possa dire nulla di originale a riguardo! Eppure, eccomi qua, a cercare le parole bucandomi la pelle dell’indice con uno spillo. Cercare, quando sono già tutte date, le parole, da almeno 200 anni a questa parte.
Potrei magari tirare fuori dati e statistiche: ad esempio, secondo l’OXFAM l’1% della popolazione detiene più capitale del restante 99%; chi percepisce un reddito di 20 mila euro l’anno è più ricco del 93% della popolazione mondiale e il 9% della suddetta guadagna in media meno di 2 euro al giorno. Questi numeri, tuttavia, non faranno avere un’epifania a nessuno poiché, purtroppo, sono come le canzoni di Natale, che almeno una volta all’anno ci capitano sotto naso e c’impressionano, per carità, ma giusto il tempo di un articolo letto velocemente e per dovere o di una scrollata sul feed di Instagram.
Come in un racconto di Borges questo articolo è già stato scritto innumerevoli volte 10, 20, 35 anni fa: sono, in questo momento, ogni studente che si sia mai approcciato al tema delle disuguaglianze; sono, in questo momento, Amleto. “Amleto non compie la Rivoluzione perché l’ha già compiuta a parole”, parafrasando Anna Luisa Zazo nella sua introduzione alla tragedia di Shakespeare. Non vedo alcun senso nell’enumerare con rabbia e (giustificata) indignazione le ingiustizie sociali che macchiano ogni giorno il mondo, ingiuriare il CEO o il segretario di partito di turno e tuffarmi nel letto soddisfatto.
In un mondo digitalizzato dove veniamo sommersi quotidianamente da fatti e numeri come i narcisi dorati travolti dalla brezza di Wordsworth, considero più importante spostare l’attenzione sull’io o, meglio, sul noi: noi, i colitici, a cui il sistema proprio non scende giù, si mette sullo stomaco e madonna se lancina, ma facciamo finta di niente, abbiamo cose più importanti a cui pensare. Noi, che siamo consci di tutte le disuguaglianze, di tutte le ingiustizie, ma facciamo finta di niente.
Sono cresciuto con il mito del ’68, della militanza politica e del più grande Partito comunista d’Europa; per merenda, in terza media, pane e Giorgio Gaber. Sono stati senza dubbio decenni di tensione e stragismo, ma l’intensità di un impegno politico senza precedenti commuove e infervora. Il monologo del ’92 Qualcuno era comunista del sopraccitato e quasi profetico artista pone un velo pietoso e urticante sul tempo della militanza, già caduto da una decina d’anni in favore della grottesca e lenta metamorfosi del paese nell’Italia delle canzonette e delle veline. “Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente!”.
Oggi questo dopodomani pare più lontano che mai e intanto le previsioni di Marx si avverano. L’automatizzazione asservita non a un fine sociale ma al puro guadagno, minaccia sempre di più i lavoratori di ogni settore; l’intelligenza artificiale comincia a contrapporsi ai lavoratori dei settori artistici come musica e cinema, le cui componenti mainstream virano sempre di più verso la lobotomizzazione culturale e un approccio sempre più industriale. La classe media lentamente scompare, diventa sempre più povera a causa di un mancato adeguamento dei salari al costo sempre più caro della vita. In Italia si fatica a implementare un salario minimo per legge; le piccole aziende affogano nelle tasse e i grandi imprenditori, semplicemente, evadono. Come se non bastasse la speculazione sugli appartamenti nelle città universitarie è fuori controllo: l’istruzione diventa sempre di più un lusso e le famiglie si indebitano per garantire ai propri figli stanze che per dimensioni si avvicinano al nascondiglio di Saddam Hussein. Intanto, in tv, si discute se l’uccisione di 64mila civili a Gaza rientri etimologicamente nel termine genocidio, mentre lontano dalle telecamere di Studio Aperto un bambino perde la vita in una miniera di Cobalto in Congo, per favorire la transizione green in Europa.
Insomma, abbiamo tutti i presupposti per organizzarci, protestare, ribaltare volanti, combattere per un fine collettivo. Si percepisce, tuttavia, un senso comune di stanchezza, di disillusione, quasi di parodia. Come Estragone guardiamo l’albero, ci viene voglia d’impiccarci, non abbiamo una corda, passiamo ad altro. Che sia un processo conscio, un piano ben studiato dai grandi capitalisti per spegnerci il pensiero a suon di TeleMike ieri e podcast di Fabrizio Corona oggi o una digressione “naturale” dell’intrattenimento (come è più probabile che sia), i mass media contribuiscono attivamente a questa continua regressione culturale che ha avuto, in Italia, il suo periodo d’oro con il berlusconismo, il cui spettro ancora aleggia sulla penisola intera. D’altronde dobbiamo ringraziare, in parte, l’ex Cavaliere per la totale sfiducia del popolo italiano nella sinistra e la strana convinzione che i comunisti siano addirittura arrivati al governo nel recente ma indefinito passato per incasinare la nazione intera. L’altra parte del merito va, ovviamente, alla sinistra stessa, da anni amorfa, smidollata, patetica e incapace di alzare la voce.
«D’Alema dì qualcosa, reagisci, dai…dì qualcosa D’Alema… D’Alema dì una cosa di sinistra! Dì anche una cosa anche non di sinistra, di civiltà! D’Alema dì una cosa, dì qualsiasi cosa, reagisci!» (Nanni Moretti nel suo film “Aprile” reagendo a un confronto tra Berlusconi e D’Alema, segretario del PDS, a Porta a porta, 1996).
Con Berlusconi è anche cominciato il processo di regressione del dibattito politico italiano e la consequenziale ascesa del populismo: ancora oggi le personalità dei grandi partiti di destra parlano allo stomaco della popolazione, individuando capri espiatori (come gli immigrati) da accusare di tutti i problemi del sistema. Non è un caso che in tutto l’Occidente spiri un vento nero e reazionario: il popolo è arrabbiato, stremato, ha bisogno di riversare la propria frustrazione su un nemico concreto e attaccabile. Abbiamo assistito ad Elon Musk, tra i più grandi e influenti industriali al mondo, fare il saluto romano davanti a una folla in fervore dopo delle dichiarazioni al limite tra delirio ed estremismo del neo-eletto presidente degli USA Donald Trump; tuttavia, persiste nell’aria un certo imbarazzo nel parlarne, come se esprimendo un’opinione di dissenso si possa passare per anti-sistema o noiosi. Anche quando se ne parla in famiglia, tra amici o in luoghi pubblici persiste una certa goffagine, un cialtronismo di fondo; ci facciamo spegnere dagli argomenti più vecchi del mondo o dalle giustificazioni più insulse, così, per quieto vivere; perché con certa gente non ci puoi proprio ragionare e vedi tu se ci devo perdere i nervi appresso.
Noi colitici siamo nevrotici, insoddisfatti, inquieti, anche un po’ altezzosi, diciamolo. Tuttavia, se osserviamo bene quelle persone con cui non puoi proprio ragionare, notiamo in loro la nostra stessa postura ripiegata sullo stomaco; una smorfia di dolore simile a quella che facciamo la mattina davanti allo specchio. Scopriamo (come se ci fosse qualcosa da scoprire, come se non ci fossimo potuti arrivare prima) che il muratore che da anni vota Lega e il proprietario del bar che si definisce fascista non sono mica contenti di vivere nella logica soffocante del profitto, per quanto, alcuni, sarebbero in grado di fare facilmente torto verso altri uomini per denaro. Siamo tutti colitici, nel profondo; condividiamo la stessa fitta addominale, ma non tutti ne conoscono la diagnosi. Molti preferiscono ragionare con la fitta e non con la mente, ripiegandosi su una personale dialettica del dolore che non può non sboccare in individualismo o violenza (ci sono anche colitici che credono di parlare con la mente, ma hanno semplicemente una fitta eloquente, non dimentichiamolo).
Adesso, credo, dovrei alzarmi in piedi e, entusiasta, strillare: “Colitici di tutti il mondo, unitevi!”. Sono però discorsi già affrontati, contestati, esauriti e riaffrontati. Vorrei essere capace di urlarlo con tuoni al posto delle parole e impressioni che rimangano sulla pelle di chi legge come cicatrici; ma questo colitico, a neanche vent’anni, già percepisce un senso di decadenza, una stanchezza color polvere. Questa relazione (se si è talmente generosi da dirla tale) è amorfa perché è la mia stessa fiducia nel cambiamento ad essere priva di forma, non perché “il capitalismo è la naturale tendenza dell’uomo” o “l’uomo è egoista di natura” o simili porcate. La mia fiducia, in questo momento, non è e basta.
«…ma pregare, io, come faccio? che non credo più in niente,
delle volte, ci penso, così».
(Raffaello Baldini, I nomi)