Di Annarita Rafaniello
Leggendo e studiando Quasimodo, sono rimasta colpita dal fatto che egli, pur essendosi trasferito giovanissimo a Roma e poi a Milano, dove ottenne molti riconoscimenti e la docenza universitaria, fosse tormentato dalla nostalgia per la terra natale e dal dolore di una separazione obbligata. In effetti, sin da ragazzo, egli fu consapevole di doversi allontanare dal Sud per potersi realizzare. Nei versi di Vento a Tindari, il poeta, mentre compie una gita su questo splendido promontorio, definisce la sua vita milanese un aspro esilio, che gli provoca un’ansia precoce di morire.
A Milano egli aveva dovuto lottare per sopravvivere, compiendo i lavori più umili: amaro pane a rompere. Con questa metafora egli rappresenta, purtroppo, il dramma dell’esilio di tanti emigranti di ieri e di oggi, costretti ad abbandonare la propria terra nel tentativo di una realizzazione. Una piaga ancora sanguinante per le genti del Sud, che affonda le sue radici nei secoli addietro e si collega direttamente alla questione meridionale.
Sin dal periodo postunitario, infatti, si è generata una frattura tra il Nord industrializzato e sviluppato ed il Sud, un divario che ancora cresce e che ha cause molto complesse. L’arretratezza socio-economica trovò nell’emigrazione una valvola di speranza. La situazione economica del Sud Italia, infatti, era ancora basata su un modello agricolo di tipo feudale, in cui i cosiddetti galantuomini si circondavano di braccianti da sfruttare. I grandi proprietari divennero la nuova classe politica e, quindi, non si realizzò un vero e proprio ricambio.
Il dibattito sulla questione meridionale coinvolse, in una comune battaglia, economisti e sociologi, segnando la nascita di un movimento che, attraverso una serie di inchieste, stimolò fortemente l’opinione pubblica. Questo movimento lanciò un allarme contro l’indifferenza delle regioni centro- settentrionali d’Italia e sollecitò provvedimenti legislativi, in mancanza dei quali si temeva il possibile insorgere di pericolose sommosse.
L’inchiesta condotta nelle province italiane da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, due politici ed economisti dell’inizio del Novecento, rivelò che il ceto agrario, sfruttatore e usuraio, rappresentava il principale ostacolo all’espansione del sistema liberale. Non si poteva certo parlare di una libera scelta politica da parte della popolazione del Sud, considerando che in queste zone l’analfabetismo raggiungeva l’80% e che le persone, ad esempio per problemi di salute, preferivano ancora rivolgersi al “mago” piuttosto che al medico.
Tornando al dramma dello spopolamento, potremmo parlare, anche per l’Irpinia, di desertificazione progressiva. Se guardiamo ai dati ISTAT del 2020, infatti, la situazione è veramente sconcertante, in quanto ogni anno più di 1.000 abitanti si trasferiscono al Nord. Nel 2019 sono partite più di 1.500 persone, tutte in età giovanile, dai 20 ai 40 anni, trascurando la fuga degli universitari: si stima, infatti, che siano 40.000 i giovani campani emigrati per motivi di studio.
A mio parere, questo fenomeno è anche il risultato di una società globalizzata ed evoluta, che offre ai giovani l’opportunità di fare esperienze all’estero, nei grandi centri e presso aziende del Nord. Tuttavia, se per le nostre zone si parla di desertificazione, ciò avviene principalmente non per una scelta volontaria, bensì per necessità. La carenza di servizi e strutture, come trasporti adeguati e industrie, rallenta l’economia e lo sviluppo del Sud Italia, inducendo i giovani più qualificati ad allontanarsi in cerca di realizzazione.
In questo modo si perdono le risorse migliori, le famiglie sono costrette a separazioni spesso dolorose e i paesi si spopolano. Nel 2019, nella provincia di Avellino, la fascia di giovani tra i 20 e i 30 anni corrispondeva a meno del 10% della popolazione. È, a mio avviso, drammatico che tutto questo accada, anche perché i nostri luoghi di origine possiedono risorse inestimabili, purtroppo non valorizzate, sia dal punto di vista paesaggistico che culturale ed economico.
Dunque, l’augurio è che la politica intervenga in qualche modo, cominciando dal settore educativo, per valorizzare la nostra terra e prevenire la scomparsa di interi centri. È infatti davvero triste sentire parlare di paesi senza scuola, a causa della carenza di un numero sufficiente di bambini. Anche Quasimodo aveva compreso tutto ciò e si occupò, in modo diretto, impegnato e critico, dei problemi sociali ed economici del Sud Italia e delle ingiustizie subite dalla sua terra.
Belle e ancora attuali, ad esempio, sono le parole di Lamento per il sud (La vita non è sogno). Questa poesia è una vera denuncia, un atto d’accusa, in quanto esprime la voce dell’uomo che ha sete di giustizia e piange il dolore della propria terra, da sempre abbandonata al suo destino e sfruttata.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Quasimodo invoca la giustizia sociale, assente nell’Italia spaccata tra Nord e Sud, e denuncia l’ingiustizia che avvolge la terra nativa, concepita come un luogo arretrato economicamente e socialmente: la malaria, le terre incolte e, poi, lo sfruttamento dei popoli che “hanno bevuto il sangue del suo cuore”, dei bambini costretti a dormire all’aperto sotto “coltri di stelle”.
In queste opere della maturità, il Sud, per il poeta, non è più un eden perduto a cui si voglia fare ritorno, bensì una terra di contrasti dolorosi, una terra maledetta, alla quale rivolge un lamento d’amore senza amore.