Da tempo nel mondo politico c’è una diffusa volontà di aprire una nuova stagione di riforme costituzionali. Tentativi che spesso sono andati a vuoto anche perché non si è mai riusciti a costruire un solido rapporto tra le varie maggioranze e le opposizioni che si sono alternate negli ultimi anni.
Il primo esperimento è del 1983 con la commissione bicamerale presieduta dal deputato liberale Aldo Bozzi. Agli inizi degli anni novanta nuovo tentativo con la commissione presieduta prima da De Mita e poi da Nilde Iotti. Nel ’96 è D’Alema a riprovarci. Nel 2006 tocca al governo Berlusconi e nel 2016 a quello presieduto da Renzi. Tutti i tentativi di riformare il sistema non sono mai andati in porto.
Domenica e lunedì prossimi si vota per il referendum che taglia deputati e senatori riducendoli a 600: 400 per la Camera e 200 per Palazzo Madama. Dieci mesi fa il voto sostanzialmente unanime del Parlamento alla riforma: 553 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti. Eppure oggi a fare campagna elettorale contro il quesito sono in tanti sia nel mondo politico che in quello dei giuristi.
I fautori del No ritengono che se dovesse vincere il Sì, i rischi sarebbero molteplici. Il primo di natura politica: chi vuole votare subito potrebbe dire che dopo un referendum che riduce il numero dei parlamentari, queste Camere sarebbero delegittimate. E proprio la delegittimazione dei parlamenti è un altro argomento da contrastare per i fautori del No, visto che da tempo si susseguono gli attacchi demagogici e populisti mentre il modo giusto per diminuire il numero degli eletti non è un taglio lineare, ma occorre differenziare la funzione delle due Camere e intervenire sui regolamenti perché la vera anomalia italiana è il bicameralismo paritario. Manca inoltre una legge elettorale che garantisca una vera elezione dei parlamentari che oggi, nei fatti, sono nominati dalle segreterie dei partiti. Chi vota No, insomma, lo fa per difendere un’Istituzione che rischia di essere ancora più svilita.
Al contrario chi fa campagna elettorale per il Sì parte dal ragionamento opposto: non c’è nessun rischio di elezioni anticipate perché con meno poltrone in palio, gli eletti in carica non mollerebbero il seggio e quindi il governo sarebbe più blindato. Altra ragione per chi vota Sì è il risparmio economico anche se piuttosto modesto. Ci sono poi riflessioni più ampie che riguardano, come ha scritto ad esempio Antonio Polito sul Corriere della Sera, la funzione del Parlamento che è stato a lungo scavalcato dall’abuso dei decreti legge, con la scusa della necessità e urgenza. Ci sarà sempre meno democrazia se il Parlamento è solo cassa di risonanza, puro palcoscenico di uno spettacolo politico.
E il costituzionalista Michele Ainis ritiene che un’assemblea pletorica è anche meno capace come diceva Einaudi. L’Italia – prosegue – ha un Parlamento affollato ma non autorevole né rappresentativo mentre ad esempio il Senato americano che ha solo cento membri pesa come un re. Per Ainis non si può dire che occorre votare No per darla vinta ai populisti perché il loro successo durerà tre giorni, la Costituzione si spera altri trent’anni.
La risposta dunque al referendum, alla semplificazione di un Sì o di un No sulla scheda, sta nella politica che deve uscire dall’immobilismo e dall’assenza di idee per rilanciare un paese che ha bisogno di essere ricostruito con riforme serie. E la serietà deve essere anche dei parlamentari. In troppi hanno votato Sì’ al taglio di deputati e senatori e ora si comportano in modo opposto per destabilizzare governo e maggioranza. Un respiro troppo corto mentre una riforma così importante avrebbe bisogno di una discussione di merito e non dell’ennesimo scontro elettorale.
di Andrea Covotta