Ha detto il Presidente del Consiglio Mario Draghi ieri alla Camera: “Ho la sensazione di essere solo allo stadio iniziale di un profondo cambiamento nelle relazioni internazionali che ci hanno accompagnato nei 70 anni che sono passati – più di 70 – dalla fine della Seconda guerra mondiale”. Poche ore prima, in un’intervista al “Corriere della Sera”, avevamo letto questa dichiarazione di Dimitrij Suslov, consigliere di Putin per la politica estera: “Non c’è dubbio che siamo entrati in una nuova realtà geopolitica, un nuovo stato delle relazioni”. La singolare analogia fra le due affermazioni non sminuisce la gravità della situazione né i rischi di un drammatico allargamento del conflitto, ma fa giustizia delle interpretazioni dell’attacco russo all’Ucraina come il frutto della paranoia guerrafondaia del capo del Cremlino, da interpretare solo in chiave di delirio di onnipotenza. E allora, se è vero che, ancora con parole di Draghi, “Il ritorno della guerra in Europa non può essere tollerato”, è altrettanto vero che Putin non ha agito mosso solo da un impulso criminale, ma seguendo un’agenda “vasta, complessa e a lungo premeditata” che in qualche modo va letta e interpretata e che richiede una risposta prima di tutto europea in chiave geopolitica. Naturalmente, perché ciò possa avvenire occorre che prima di tutto tacciano le armi e cessino i combattimenti; e qualche segnale in questo senso già si avverte, stando ad alcune dichiarazioni del presidente ucraino Zelenski e alla disponibilità subito manifestata da Mosca a riprendere le trattative di Minsk. Se e quando ciò avverrà – speriamo presto – bisognerà attrezzarsi per dare spazio alla politica evitando che i pregiudizi ostacolino il cammino della pace. I tre protagonisti statuali del conflitto – la Russia, la Bielorussia e l’Ucraina – sono il nocciolo slavo della crisi che nell’inverno del 1991 decretò la disgregazione dell’Unione sovietica. I tre capi delle repubbliche slave si incontrarono in una dacia presso Minsk e denunciarono il trattato dell’Unione ponendo fine all’Urss come soggetto di diritto internazionale. Era l’8 dicembre: meno di tre settimane dopo Gorbaciov rassegnava le dimissioni e cedeva tutti i poteri al presidente russo Boris Eltsin. Nei trent’anni successivi, Mosca ha assistito inerme alla perdita dell’influenza esercitata in metà dell’Europa, alla nascita ai suoi confini occidentali di repubbliche ostili, e oggi al tentativo di svincolare dalla comune tradizione russo-ortodossa l’Ucraina o una parte di essa, trasferendola nell’orbita della Nato, che è stata lungo tutti questi anni lo strumento geostrategico del ridimensionamento delle ambizioni russe.
Ci si può chiedere se non sia troppo tardi per Putin tentare di ribaltare bruscamente il corso di una storia che ha camminato in fretta; ma una risposta non può non tener conto di due fattori determinanti: l’emergere in Asia della potenza cinese, latente trent’anni fa e oggi tatticamente alleata di Mosca, e il peso dell’arsenale atomico russo che nel ’91 fu determinante per convincere l’Occidente a non umiliare la Russia, preoccupazione che ora sembra molto meno presente. Così come l’Europa dovrà interrogarsi sul ruolo che le spetta nella costruzione di una nuova architettura geopolitica che non sopporta più ruoli egemoni o guide ideologiche.
di Guido Bossa