Di Gianni Festa
C’è un altro sud del quale si parla poco. E’ quello delle aree interne. E’ virtuale. Le voci, infatti, vengono da lontano. Dai luoghi dell’emigrazione, aree metropolitane del nord, realtà urbane d’Europa e del mondo. I racconti dei protagonisti diradano lo spessore delle nuvole che si addensano sulla questione di un altro sud nel sud. Giovanni Del Giudice, due lauree (Scienze politiche e Digitalizzazione) ha vissuto i suoi primi venti anni in un paesino situato tra i confini della Puglia e della Campania. “Ragazzo del muretto” lo chiamavano per quella sua voglia di leggere libri sul muro costruito con tufo nella piazza del paese. Per anni è stato testimone di un esodo biblico, suoi coetanei in partenza per ogni dove, in cerca di lavoro. Un esercito vero e proprio che sintetizza quello che viene definito “effetto spopolamento”. La sua è una riflessione, consegnata al cronista, a tutto campo. Dalla politica, alla conservazione della radice territoriale, fino alla condanna di una classe dirigente giacobina nelle sedi del potere e forcaiola nel proprio territorio di rappresentanza. “Nella realtà dalla quale sono andato via – dice Giovanni- subivamo i ritmi lenti di una condizione sociale ferma nel tempo. La modernità la raccontano solo i social e la televisione”. Forse, penso ascoltandolo, la lentezza dei ritmi di partecipazione alla società dipende anche da un valore antico trasformatosi in condanna: la civiltà contadina, con le sue lentezze, ma anche con straordinari valori, non mediati dall’avvento di rapide innovazioni tecnologiche incapaci di coinvolgere i territori e le comunità nella fase di passaggio di una resistenza al nuovo. Sono state anche le conseguenze dei disastri ambientali (terremoti, frane, alluvioni, ecc) con i ritardi accumulatisi nella ricostruzione, ad accelerare la fuga verso paesi assai lontani. E così lo spopolamento ha trovato forza nell’eseguire una condanna senza appello. Le storie dicono anche di più. Racconta Nicola Di Stasio, emigrato negli anni Sessanta in Venezuela, dall’Aspromonte, in Calabria. “Partii per combattere la fame, la povertà, assicurare ai miei figli un domani migliore. Dura fatica, sacrifici enormi, ma la grande soddisfazione di raggranellare danaro per inviarli al mio paese. Il più grande desiderio, costruire un’abitazione nel mio paese di origine”. Nicola racconta la sua storia con una commozione che gli rende gli occhi lucidi. Poi il rovescio della medaglia. “L’abitazione la completai. Ero felice. I miei figli avrebbero potuto disporre di un mattone nella propria terra. Oggi sono stati costretti a venderla per potersi pagare il trasferimento all’estero. Mi piange il cuore”. E pensare che in quasi mezzo secolo qualcosa poteva cambiare. Invece speranza e dramma si sono inseguiti. Ieri come oggi. Già, mezzo secolo e più di politica per le zone interne. L’isolamento è stato solo in parte sconfitto. Le delusioni sono figlie dei mancati appuntamenti con una politica di infrastrutture. Strade, autostrade, dighe, mobilità ferroviaria sono ancora oggi progetti ingialliti nei vari ministeri. I cosiddetti masterplan per il Mezzogiorno, e quindi anche per le zone interne, sono stati accantonati. Forse ci sarà un tempo diverso. Almeno si spera. O, per dirla con Pino Daniele, le zone interne saranno destinate a diventare una “carta sporca che nisciuno se ne importa”. La politica, ad esempio. Con i suoi rappresentanti meridionali in Parlamento che latitano quando si affronta la “questione meridionale” e sostano nei baretti intorno alle Camere aspettando di parlare d’altro. Non sembri un paradosso. E’, anche se non sempre, la storia di un sud in cui la radice del male è l’assenza di una classe dirigente degna di questo nome, come amava dire con amarezza Guido Dorso, spettatore indignato di un Mezzogiorno “clientelare e trasformista”. Se la politica è assente, la classe dirigente minimizza sullo spopolamento delle zone interne offrendo analisi sociologiche dal sapore giustificazionista, la Chiesa, invece, ha scelto la trincea. L’assenza di anime nei paesi del sud ha sollecitato preti di campagna, pastori delle Diocesi meridionali e delle aree interne del Nord a scendere in campo. Hanno rivolto un appello a Papa Francesco, al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, a sollecitare una maggiore attenzione per le aree fragili del Paese.