Fa molto discutere (ma è stato sempre così) il dato della partecipazione alle urne degli aventi diritto al voto. Le analisi sociologiche si sprecano e, quasi sempre, la responsabilità viene attribuita alla politica che delude. Soprattutto i giovani. Ma dopo il voto regionale in Lombardia e Lazio la riflessione si è ampiamente allargata. Sul banco degli imputati è salito, oltre alla delusione, comprensibile per come la politica è ridotta, anche il nuovo modo di informare attraverso le nuove tecnologie. Gli effetti, se non si dovessero ricercare nuove modalità della partecipazione, sarebbero disastrosi. Si rischia, in sostanza, di minare la democrazia che senza popolo perderebbe il suo significato. Il fenomeno dell’astensionismo che riguarda la maggior parte dei Paesi europei si spiega anche con l’invecchiamento della popolazione. Sono, infatti, proprio gli anziani a riempire le urne, mentre esse restano quasi vuote per l’assenza del popolo giovanile. Da una recente inchiesta sui comportamenti dei giovani alle urne (Eurobarometro) si rileva che circa il 40% non ritiene che il voto sia utile per cambiare la società. Credono, invece, nelle manifestazioni di piazza, nel movimentismo associato, e soprattutto si informano attraverso Internet. La rivoluzione tecnologica è quella che oggi incide molto nel formare giudizi e personalità. Non sembri una esagerazione se si afferma che il telefonino occupa il maggior tempo dei giovani nell’affannosa ricerca di notizie. Il criterio della selezione di esse è piuttosto approssimativo. Tutto in quattro righe, con il rischio di farsi deviare dalle cosiddette fake news. Il populismo si nutre di questa forma di comunicazione. I dati, d’altra parte, parlano chiaro: i giovani che guardano la tv raggiungono la percentuale del 34%, la radio viene ascoltata per circa il 20%, la carta stampata si attesta solo sul 14%. La maggioranza dei giovani si informa tramite il Web e i social media. Ma la buona e la cattiva informazione dei social sono i mezzi che allontanano i giovani dalla partecipazione politica o, invece, è la mancanza di politica a tenerli lontani dalle urne? L’opinione più diffusa (e su questo si potrebbe aprire un confronto con chi è interessato alla questione) è che il mutamento della politica abbia creato una disaffezione per la partecipazione. Il fondamento che una qualsiasi forza politica agisce per rispondere ai bisogni della comunità è del tutto fallito. I partiti oggi sono delle forme associative i cui componenti agiscono individualmente e spesso per proprio tornaconto. Sono ben lontani dal dettato costituzionale secondo cui “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Ma cosa è oggi la politica nazionale se non un unicum di risse del vertice dei partiti? Liti furibonde che nascono e muoiono spesso tra la sera e il mattino. Una sfida continua tra i partiti che si coalizzano per la maggioranza e che si scompongono per il proprio interesse elettorale. E’ questa cattiva formazione che i giovani rifiutano, mentre il Paese galleggia tra corruzione, criminalità organizzata, assenza dei valori fondanti di una società in cui prevale il bene comune. Ma è soprattutto l’assenza della cultura a determinare il calo di attenzione, il degrado delle istituzioni. Il tutto e subito va bene per le grandi emergenze, non per la formazione di una società che ha bisogno di riflettere per costruire il futuro. Come diceva l’illustre costituzionalista Robero Ruffilli, ucciso dalle Br, “il cittadino è il vero arbitro nello scegliere e nel cambiare la maggioranza di Governo, e non affida ai soli partiti una delega in bianco, che rischierà di svuotare di contenuti il mandato elettorale conferito”. I mezzi di informazione sono solo strumenti, mentre la partecipazione è una idea rivoluzionaria
Gianni Festa