“Ricordare la guerra per affermare la pace”. E’ il titolo e il messaggio della manifestazione che ricorda il bombardamento della città. Era il 14 settembre del 1943. Come ogni anno la cerimonia tra Piazza del Popolo, con la deposizione della corona ai Caduti, e poi a piazza Kennedy, nei giardinetti Di Nunno, con la posa della corona al monumento ai marinai.
Nella Casetta di vetro è stato proiettato il documentario “Avellino 43” di Montefusco, Del Sorbo e Giordano.
“Il ricordo deve diventare consapevolezza e impegno. Consapevolezza di quanto la guerra sia assurda, e impegno a rispettare la vita, sempre e comunque”, ha detto il commissario prefettizio del Comune di Avellino Giuliana Perrotta durante la cerimonia.
“Siamo qui a ricordare il bombardamento del ’43 per riaffermare con forza il valore della pace: la pace non è mai scontata né duratura, ma va costruita. E ognuno di noi nel suo piccolo può fare qualcosa nell’impostare i rapporti all’insegna del dialogo, della non violenza e della comprensione degli altri”, ha concluso.
“Parlare di pace, oggi, significa misurarsi con le guerre in corso”, ha continuato il vescovo di Avellino, monsignor Arturo Aiello. “La pace non è soltanto assenza di guerra. È un determinante della felicità. Eppure, guardando alle nostre serate tra i giovani, notiamo che spesso non c’è festa senza che vi sia qualche segno di violenza, contro le cose o contro le persone.
Questo ci dice quanto sia urgente invocare e costruire una vera cultura della pace.
Domani – ha aggiunto il vescovo – riapriranno le scuole. La scuola è il primo presidio di pace. La cultura della pace non riguarda solo le grandi questioni internazionali, ma la vita quotidiana: il rispetto dell’ambiente, la cura di un giardino, l’uso delle parole, il modo di guidare una moto rispettando il Codice della strada. La pace nasce dalla capacità di creare coordinamento tra le differenze, persino in famiglia, tra fratelli, o tra parti sociali e politiche che spesso preferiscono il conflitto al dialogo.
Avellino – ha osservato il vescovo – conosce questa difficoltà al dialogo: lo dimostra il fatto che la città abbia oggi bisogno di un commissario perché le parti politiche non hanno saputo parlarsi.
La scuola rimane l’istituzione più importante perché è lì che si impara a parlare. Diceva il grande filosofo Martin Heidegger che“il linguaggio è la casa dell’essere”. Questo significa che l’afasia, l’incapacità di parlare, il vocabolario ristretto che purtroppo vediamo in tanti nostri ragazzi, coincide con la morte dell’essere. Dove mancano le parole, resta solo il silenzio, e il silenzio può essere quello del cimitero.
Se il mondo non cambia direzione – ha avvertito il vescovo – , l’unica pace che ci attende sarà quella dei cimiteri. E noi non vogliamo questa pace. Noi invochiamo l’altra pace: quella dello sguardo, quella della Parola, quella che permette ai bambini, ai giovani, agli uomini e alle donne di ritrovarsi insieme, nelle diversità, e trovare ancora parole nuove da dirsi. Finché c’è una parola da dire, siamo vivi. Quando le parole finiscono, allora inizia la morte”.