Spento o almeno attenuato l’entusiasmo per l’accordo europeo sul “Recovery fund”, si comincia a valutare l’altra faccia di una medaglia che resta comunque di metallo pregiato, anche se il suo utilizzo pone la Commissione e gli Stati membri di fronte ad una sfida inedita e ad un rischio parimenti aleatorio. Lo ha detto esplicitamente il Commissario all’economia Paolo Gentiloni, pur soddisfatto per l’esito della maratona negoziale di Bruxelles: “Dovremo essere in grado di approvare nuove risorse proprie dell’Unione, come la digital tax e la tassa sulle emissioni di CO2, per rimborsare il debito comune tra il 2026 e il 2056. In caso contrario, i singoli paesi si troveranno a dover restituire i soldi perché l’Europa non è stata capace di rimborsare il debito comune”. Quest’ultima è certamente un’ipotesi da non prendere in considerazione, poiché è certo che all’impossibilità di riscattare, alla scadenza, i titoli europei, si risponderebbe con l’emissione di nuovo debito, secondo un meccanismo che in Italia conosciamo bene per averlo praticato da tempo, sia pure con esiti altalenanti. Eppure le considerazioni di Gentiloni suscitano allarme per l’ovvia constatazione che la nuova tassazione, pur destinata a colpire grandi società spesso multinazionali, si riverserebbe a cascata sui consumatori europei, ma anche con riguardo alla particolare congiuntura internazionale nella quale ci troviamo e presumibilmente resteremo ancora a lungo. Da una parte abbiamo l’Europa che per la prima volta nella sua storia emette debito sovrano, il che segna una svolta positiva nel percorso della nostra Unione, nel senso di una maggior coesione e solidarietà fra gli Stati; dall’altra abbiamo una cornice geopolitica e geoeconomica che vede chiudersi le frontiere commerciali e alzarsi barriere politiche fra paesi e sistemi diversi ma fino a ieri in dialogo fra di loro. In questo nuovo contesto l’Europa si troverà dal prossimo anno a cercare acquirenti per il proprio debito. Qualche anno fa l’impresa sarebbe stata facilitata da una situazione di cooperazione internazionale molto più fluida dell’attuale. Solo per fare un esempio: la Cina non avrebbe avuto problemi a destinare una parte della propria immensa liquidità ad investimenti finanziari come quelli proposti dall’Europa; domani ciò sarà molto più difficile di fronte ad interventi interdittivi degli Stati Uniti come quelli esercitati nel settore delle nuove tecnologie, in un clima che ricorda i tempi della guerra fredda. Nei giorni scorsi, il “Sole 24 ore” ha rivelato che la Commissione ha avviato sondaggi per acquisire manifestazioni d’interesse del mercato dei capitali in ordine a possibili emissioni di bond europei fra l’autunno del 2020 e la prima metà del prossimo anno. Le risposte sembrano incoraggianti, ma è presto per avere previsioni attendibili. I tempi, comunque, sono compatibili con quelli delle prime erogazioni del Recovery fund a favore degli Stati più in difficoltà come Italia e Spagna. Ma coincidono anche con i tempi di attuazione di un capitolo meno noto degli accordi di Bruxelles, quello degli sconti applicati ai contributi al bilancio comunitario versati dai paesi cosiddetti “frugali” per convincerli a dare il via libera agli aiuti agli Stati che frugali non sono. Si tratta di quasi due miliardi l’anno di risparmi (i ”rebates”) per l’Olanda, poco più di un miliardo per la Svezia, 565 milioni per l’Austria, e così via, in un conteggio in cui la parte del leone spetta alla Germania, con oltre tre miliardi e mezzo l’anno. In totale fanno oltre 36 miliardi di Euro, che vanno messi nel conto dei beneficiari del fondo per la ripresa. Anche in Europa non esistono pranzi gratis.
di Guido Bossa