Di Annarita Rafaniello
Quello di Gaza è, ormai da anni, un nodo dolorosamente insolubile: dalla Dichiarazione Balfour (1917), alla risoluzione ONU del 1948, dalla Nakba, alla guerra dei Sei Giorni e agli accordi di Oslo, dalla Prima alla Seconda Intifada, fino al terribile 7 ottobre 2023, quando un assalto di Hamas ha causato circa 1300 morti. Oltre settant’anni di tensioni, radicate in problemi storici, religiosi e geopolitici profondi. I fatti sono noti, i media ne sono saturi.
Da quel giorno, non c’è stata pace per il popolo palestinese e, probabilmente, nemmeno per molti ebrei. Se ci interroghiamo ancora su come sia stato possibile l’Olocausto, allora è altrettanto legittimo domandarsi come possa persistere questa violenza perpetuata sulla Palestina. Una violenza senza nome né giustificazione, che annienta ogni speranza: 50.000 i bambini uccisi (tra loro, due neonate di appena quattro giorni), 25.000 le donne, migliaia delle quali incinte, e circa 70.000 le vittime finora accertate, a cui si aggiungono quelle non ancora riconosciute, ammassi di carne contati a peso.
Non meno drammatico è l’embargo sugli aiuti: anestetici, antibiotici, cibo, acqua; persino la solidarietà si trasforma in trappola. La fame diventa un’arma di sterminio. È indubbio che nei cunicoli di questa terra intrisa di sangue si celino terroristi di Hamas, ma mi domando: può mai essere giustificato bombardare una casa e uccidere nove bambini, nove fratellini, figli della dottoressa Alaa al-Najjar? Cosa possiamo fare noi, cittadini dell’Unione Europea? Come porre fine a questa mattanza, a questa guerra che lacera l’anima dei popoli? Noi, che con occhi severi guardiamo indietro ai tempi dell’Olocausto, e chiediamo: «Come avete potuto lasciare che tutto ciò accadesse?»
Tra le molte voci che si levano nel silenzio della sofferenza, risuona quella della Senatrice Liliana Segre, 94 anni, sopravvissuta all’orrore dei campi di sterminio: «Sento uno sconforto che rasenta la disperazione» per la guerra che divampa a Gaza. «È chiaro – confessa – che, dopo un trauma come quello del 7 ottobre, qualunque governo israeliano avrebbe reagito con durezza. Ma ciò che accade a Gaza ha varcato i confini dell’umano, travalicando ogni principio di umanità e diritto.»
Nel suo ultimo scritto, Riflessioni di una donna di pace, Segre riconosce in Hamas un partito terrorista, avvolto nel fanatismo e nel sangue, che vuole annientare Israele e usa il popolo palestinese come scudo. Ma non tace il suo sdegno verso Netanyahu e l’estrema destra israeliana, oltre ogni limite di umanità e legge. Teme che da questo fuoco divampi ancora più feroce l’antisemitismo, un orribile cerchio vizioso che si avvolge su se stesso.
Non resta allora speranza? Sono condannati questi due popoli a un eterno duello di odio e dolore?
Io credo, invece, che possiamo agire nella storia, anche se in punta di piedi. Credo nelle voci pacifiche, nelle piazze che si colorano di pace e di speranza.
E ancor più, credo nel Diritto, che tenta di domare la furia della guerra, parola di morte e contraddizione. Ogni conflitto è un abisso, ma esiste “l’abisso dell’abisso”, e da quel baratro dobbiamo trovare la forza di risalire.
La Convenzione di Ginevra e il Codice di Norimberga hanno innalzato a sacro diritto la condanna dei “crimini di guerra”: massacri di innocenti, stupri, sevizie sugli ostaggi, abomini che, dal 2002, la Corte Penale Internazionale all’Aia sanziona senza tregua, come fu per Saddam Hussein e Milošević. Allo stesso modo la pulizia etnica (programma mirato all’eliminazione delle minoranze, attraverso il loro allontanamento forzato o mediante atti di aggressione militare) è condannata a livello internazionale (si pensi alla ex Jugoslavia).
Così, il 20 maggio 2024, la Corte ha invocato mandati di cattura per Netanyahu e Gallant, accusati di aver ridotto alla fame i civili palestinesi, di omicidio volontario e sterminio. E, insieme, per i capi di Hamas, responsabili di presa di ostaggi, sterminio e violenze indicibili. Le Nazioni Unite, attraverso la voce della relatrice Francesca Albanese, si sono fatte eco di questo grido di giustizia. A lei si sono uniti altri difensori dei diritti umani e rappresentanti della comunità internazionale: l’ex Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Zeid Ra’ad Al Hussein, la giurista e relatrice Agnès Callamard (oggi segretaria generale di Amnesty International), l’ex giudice della Corte internazionale di Giustizia Carla Del Ponte e la nota attivista per i diritti umani Hanan Ashrawi. Tutti hanno sottolineato l’importanza di applicare la legge internazionale in modo imparziale e di affermare il principio che nessuno è al di sopra della giustizia, qualunque sia la propria posizione di potere.Il “genocidio”, la negazione sistematica dell’altro, la cancellazione di un popolo, è il crimine più atroce, oltre ogni umana misura, violazione suprema dello ius cogens, il diritto inderogabile che tutela la dignità di ogni popolo, sancito nel lontano 1948.
Il “nodo di Gaza”, come lo ha definito il Presidente Mattarella in occasione del 2 giugno 2025, è un grido che non possiamo più ignorare. Le sue parole risuonano limpide e severe: «S’impone il cessate il fuoco immediato. È disumano che bambini e anziani soffrano la fame. L’esercito israeliano deve aprire le porte alla speranza, lasciar passare la vita attraverso i corridoi dell’assistenza». Anche il popolo palestinese, come ogni altro, ha diritto a un “focolare”, a una terra dove germogli la pace. Israele non può sottrarsi al giuramento di umanità, al rispetto delle leggi che governano la guerra. E richiamando i dolori del passato, denuncia «l’erosione di territori sottratti all’Autorità Nazionale Palestinese».
Da sempre, ieri come oggi, l’occupazione illegale è un passo nella notte oscura della barbarie. Ubi solitudinem pacem appellant, diceva Calgaco attraverso Tacito: dove regna il deserto, chiamano pace.
Nulla è mutato? Al contrario, la Storia e il Diritto tracciano una luce: sono la memoria che avverte, la giustizia che chiama, la speranza che resta.
Il Presidente continua: «La pace non è un ideale per anime ingenue, stroncato poi dal severo giudizio della storia. La pace è esperienza che statisti lungimiranti hanno saputo pazientemente costruire. Occorre proseguirne l’opera. Non ci si deve – e non ci si può -limitare a evocarla. È necessario impegnarsi perché prevalgano i principi della leale collaborazione internazionale, della convivenza pacifica, realizzati mediante il dialogo, la costruzione di misure crescenti di fiducia vicendevole».
Statisti lungimiranti, istituzioni al Governo, organizzazioni politiche: a voi spetta il compito di dare un segno chiaro, di operare in quel terreno insidioso eppure fertile che si chiama diplomazia.
Non si tratta, da parte di noi cittadini, di rinunciare o di delegare totalmente le proprie responsabilità, ma, al contrario, di rivolgere una richiesta concreta a chi ha il dovere di agire.
La società civile si leva contraria a questa guerra, desidera contribuire alla pace, scende in piazza e lo urla pacificamente: si attende che la politica agisca, guidi, operi, risolva!
La pace non è un’utopia: è un diritto, un imperativo da garantire.
“Sessant’anni fa, negli USA, era un’utopia l’idea di cancellare a segregazione razziale, o anche pensare solo di candidare un sindaco nero. In pochi anni la schiavitù è stata abolita e un uomo di pelle nera è diventato presidente. L’utopia può avere un passo incredibilmente veloce”. (Gino Strada)