Di Diego Infante
La poesia può essere filosofia? Come scrive Giuseppe Ferraro nella prefazione alla densa raccolta poetica di Antonio Di Gennaro – tra i massimi esegeti italiani del pensiero di Emil Cioran – «I poeti abitano l’intermedio», proprio come i filosofi stanno «in mezzo e a mezzo del linguaggio». Ed è proprio questa l’attribuzione precipua che lega in maniera indissolubile il poetare al filosofare: la medietas dell’esser tramiti. Entrambe, la poesia e la filosofia, interrogano, alla ricerca di possibili equilibri e orizzonti di senso, ma le poesie di Di Gennaro fanno di più: «dicono pregando». Spesso un dialogo muto con l’«assolutamente Altro», pura e infinita eccedenza, un Dio per certi “versi” neoplatonico, che non si è fatto carne né verbo. Nei risvegli il Nostro avverte un’oscillazione, un’ebbrezza primigenia, uno spazio vuoto che “riempie” di parole che subito si ribaltano nel silenzio, un momento cruciale che segue altre oscillazioni, esse stesse sospese tra l’essere e il non essere, tra l’ente e il ni-ente, tramiti per eccellenza del non conscio che si disvela in una parola che corteggia il senso senza mai penetrarlo. Ecco spiegata l’origine di quel conflitto interiore che Rilke chiamava Zwiespalt: la scissione che, ancora una volta, accomuna il poetare al filosofare. Così facendo, tutto diventa privo di senso («La vita, tutto qui: una chiamata non voluta»). Di più: un teatro dell’assurdo («Nessuna parola,/ nessuna forma./ Solo il caos/ a presidiare/ cielo e terra/ e noi,/ spicciole lanterne,/ ad oscillare/ al buio/ senza stelle»). E infatti da Talete in poi è stato tutto un rincorrere il senso, un tentativo di riempire il vuoto originatosi da questa frattura. La solitudine lancinante (che è «pioggia dentro») e la disperazione che trasudano da questa raccolta, portano dritti agli aforismi lucidamente allucinati di Emil Cioran. Orbene, tra il disincanto derivante dall’autocoscienza del nostro essere gettati (Geworfenheit, per dirla con Heidegger) o creati (in termini escatologici), c’è spazio per una qualche speranza? Di Gennaro, in conclusione, ci dice che la poesia «è il rifugio delle emozioni […] una traccia confusa dell’abisso che è dentro di noi». Essere rifugio a se stessi, come diceva il Buddha. Forse l’unica ed estrema possibilità per esprimere e abitare il nostro dis-senso. Perché, in definitiva, «Nulla è dovuto all’esistenza se non l’esistenza stessa».
Di Gennaro – Accadimento onirico – pref. di Giuseppe Ferraro – Nulla Die – pp. 113 – Euro 13.