di Giulia Di Cairano – Nonostante la Francia possa vantare il primato di aver approvato l’anno scorso, attraverso l’Assemblea nazionale, un disegno di legge anti-fast fashion, con l’obiettivo di contrastare i marchi di moda dietro i cui prezzi competitivi si celano un costante e preoccupante aumento dell’inquinamento, e con esso costi altissimi per l’ambiente, lo sfruttamento disumano di lavoratori ed elevati rischi per la salute dei consumatori, viste le sostanze tossiche dei materiali, – anche se il Senato ha modificato la proposta in favore di brand francesi ed europei non proprio etici e sostenibili (Zara, H&M, Primark, Decathlon), ma nemmeno considerabili e considerati ultra-fast fashion (Shein, Temu) – lo scorso 5 novembre alle Galeries Lafayette, nel cuore di Parigi, è stato inaugurato il primo punto vendita fisico al mondo del colosso dell’ecommerce Shein. Mentre si attende che la Commissione europea si pronunci sulla proposta di legge francese, il governo Lecornu ha sospeso la piattaforma cinese in seguito alla bufera sollevata dallo scandalo della vendita su Shein di armi e bambole sessuali con le sembianze di bambine, confermando nuovamente quanto tutti noi manchiamo di sensibilità e lungimiranza: credere che un marchio, che nel 2024 ha fatturato circa 38 miliardi di dollari secondo le stime del Financial Times e che produce dai 3 ai 7mila capi d’abbigliamento al giorno secondo il Sustainability report 2021, con costi dai 3 ai 40 euro ciascuno, approfittando soprattutto di donne e bambini sottopagati, non possa arrivare a commerciare materiale pedopornografico e armeria è quantomeno ingenuo e viene da domandarsi perché non siano stati ritenuti sufficienti i già allarmanti dati precedenti per intervenire. Se tutto andrà come previsto, in Francia nel 2026 entrerà in vigore la legge anti-fast fashion che imporrà ai siti di scrivere, accanto ai prezzi dei prodotti, tra i tanti, informazioni sull’impatto ambientale e sociale della loro produzione, messaggi di promozione del riuso e della riparazione, indicazioni chiare sull’origine geografica dei prodotti e i marchi dovranno versare, oltre a una tassa extra-UE, un eco-contributo il cui importo sarà modulato sull’impatto ambientale calcolato. Purtroppo, pur rappresentando un importante unicum nel panorama internazionale e un modello per gli altri Stati, anche nell’illuminata Parigi – nonostante le proteste della coalizione Stop Fast Fashion, che riunisce organizzazioni come Les Amis de la Terre, Zero Waste France e Fashion Revolution France – centinaia di migliaia di persone hanno formato una fila chilometrica in attesa dell’apertura di Shein e questo ci dice molto sul potere della civiltà dei consumi che, come sostenuto da Pasolini, è riuscito a ottenere ciò che nessun altro potere ha ottenuto in modo così capillare e duraturo nella storia, cioè «l’aculturazione» e l’omologazione, distruggendo le varie realtà particolari.
Una provincia come Avellino sa bene cosa significa. Il 20 luglio 2025 ha chiuso i battenti il negozio di Zara in Corso Vittorio Emanuele, rientrando tra i 1200 punti vendita che Inditex, la multinazionale spagnola che comprende Zara, Bershka, Pull and Bear, Stradivarius, ha deciso di chiudere. A nulla è servito il migliaio di firme che ha raggiunto la petizione online lanciata per chiedere di continuare a mantenere aperto il punto vendita di Avellino, la cui chiusura «non riguarda solo i dipendenti», si legge nel testo, «ma anche i cittadini che vi fanno acquisti. Zara, infatti, non è solo un luogo di lavoro, ma anche un punto di riferimento per chi desidera rimanere aggiornato sulle ultime tendenze a prezzi accessibili». Sebbene Zara abbia millantato una certa sostenibilità – che, ancora una volta, dovrebbe far storcere il naso già solo leggendo che produce circa 800 milioni di articoli all’anno – in realtà è l’ennesimo esempio di «greenwashing», l’ecologismo di facciata finalizzato a costruire una falsa immagine sostenibile attraverso efficaci strategie di comunicazione – Zara in questo è maestra, se si pensa alle recenti campagne pubblicitarie di riposizionamento in cui tutto e tutti, dalle luci ai colori, dai volti di supermodelle come Kate Moss a fotografi del calibro di Steven Meisel, suggeriscono che sia diventata un brand di lusso, che nel senso comune è sinonimo di sostenibile. Ma la realtà è molto diversa. Come documentato e denunciato dalla giornalista Milena Gabanelli, il «poliestere riciclato» usato da Zara e altri marchi nei tessuti non è affatto sostenibile: non solo il poliestere trasformato in tessuto non è più riciclabile, ma il processo di produzione emette 1,5 tonnellate di CO2 e ogni lavaggio rilascia oltre 1900 microfibre che contaminano le acque. Inoltre, Zara usa cotone BCI, ma il cotone, oltre a richiedere un enorme uso dell’acqua, viene coltivato con agenti chimici nocivi e quello marchiato BCI, che usa pesticidi solo fino al 67%, è solo il 20% del cotone coltivato globalmente e bisognerebbe monitorare la filiera dalla coltivazione alla produzione. Ma allora perché continuiamo a comprare fast-fashion e se volessimo smettere, quali sarebbero le alternative? Trattandosi di un problema globale endemico, cosa può fare Avellino?
Fino a qualche anno fa, anche io compravo da Zara e altri marchi simili, ignara di quello che nascondevano, e il corso principale di Avellino, per me, come per molte ragazze che vengono dai piccoli paesi della provincia, ha rappresentato un luogo quasi magico perché sembrava raccordare la quieta semplicità e la resistente severità degli Irpini alle grandi metropoli vivaci e in continuo divenire nel mondo. A ripensarci adesso mi sembra un’analogia infantile e quando sento molte ragazze sui social segnalare come migliori negozi nelle loro città – Roma, Napoli, Milano, Torino – Mango, Zara, H&M cerco di non rassegnarmi e convincermi che non ci siano più negozi e brand locali o marchi emergenti o ancora davvero sostenibili perché esistono, forse nelle strade traverse, in angoli lontani dalla movida, ma resistono. A chi obietta che l’unica alternativa al fast-fashion se la possono permettere le persone ricche, quelle che comprano un maglione a €150, vengono da suggerire almeno altre due possibilità: il riuso – non solo i capi di seconda mano su Vinted e altre piattaforme, ma anche quelli di parenti e amici – e privilegiare la qualità piuttosto che la quantità – non è meglio comprare una maglia o un pantalone a €150 anziché 10 capi a €15 l’uno che saranno usa e getta? Forse indossare abiti di genitori, zii, fratelli che, a distanza di decenni, sono ancora in un buono stato non è un’idea così radical chic e forse, chiamare il nostro pianeta Gaia e considerarlo un unico essere vivente non è affatto una teoria naif quanto un serissimo modo di interpretare la complessità del nostro pianeta e della fitta rete che tutto e tutti unisce. Non possiamo sapere dove e quale tornado possa provocare un battito d’ali ad Avellino. Eppure, proprio questa città, ingrigita e impoverita da progetti e investimenti mordi e fuggi – Terremotopoli e Irpiniagate – che indossa un manto di amianto, lacrime e isolamento, più che a opporsi alla chiusura di Zara potrebbe gridare contro non solo l’inquinamento e lo sfruttamento, che purtroppo ci si illude essere lontani da noi, ma anche contro l’impoverimento del tessuto socio-economico locale. Se però vogliamo vestirci ogni giorno diversamente perché ci hanno convinto che l’estetica debba esprimere tutte le nostre sfaccettature, salvo poi dimenticarsi di averle dentro di sé, bellissimi, nuovissimi e diversissimi abiti dai comuni tratti tossici ci sembreranno sempre migliori di un abito di buona fattura e di cosa e chi c’è sotto.



