di Gerardo Di Martino*
La precedente era stata per me una giornataccia, di quelle che vorresti finissero quanto prima per abbandonarle a sé stesse senza degnarle più di uno sguardo. Non avevo sentito niente, che non fosse la suoneria del mio cellulare, sempre caldo, sempre pronto a rompere la tregua. Solo con il mio lavoro, un monitor e tanti piccoli e brevi rumori, ripetuti, sempre gli stessi, forse perché provenienti da una sudicia tastiera.
Fu solo la mattina successiva che alla radio, il mio rifugio preferito, ascoltai la notizia, quasi distrattamente, mentre con il rituale disinteresse infilavo la camicia: Pifferi condannata all’ergastolo! Una madre degenere, che ha preferito uscire per andare a divertirsi, mentre Diana, la sua bimba di 18 mesi, moriva a poco a poco, in sei lunghi giorni, tra atroci dolori.
Fui risucchiato dalla notizia, in una brevissima interruzione di vita. Come se il mondo intorno si fosse raggelato, mi fermai a pensare: ma come? Ergastolo? Cioè questa madre, secondo i giudici, dovrebbe rimanere in carcere per sempre…
È giusto? E perché? I primi pensieri, scontati, almeno per me che con questi ci lavoro, pane quotidiano. Insensibilmente costretto come sono oramai, a vedere la mia vita tiranneggiata da legge, giustizia e verità. Tre sommi concetti che, più che portarmi dietro, mi inseguono e da sempre mi agguantano pure con troppa facilità.
Ma è veramente cosa buona e giusta l’ergastolo come pena per l’imputata di questi fatti? Una volta riconosciuta colpevole della morte, intervenuta per abbandono, della piccola figlia, ha senso riporla in una cella per non farla mai più uscire?
È qui che mi sono bloccato: non ha senso, non ha alcun senso! Non fosse altro perché la bambina è morta e la madre – che tra tutte le pene, certamente sconterà la peggiore, quella naturale, sempreché sia in grado di comprenderla – ha bisogno di un nuovo orizzonte, non dell’oblio. Non ha senso per nessuno. Nemmeno per la bambina che non c’è più. Anzi, men che mai per lei che, su tutto, avrebbe voluto semplicemente una madre.
In questa centrifuga di emozioni, è stato il ragionamento, il mio compagno di vita tanto ineliminabile quanto sfuggente, a farsi avanti sul resto, tosto ed impertinente.
«Deve pagare per quello che ha fatto, se si fosse pentita ed avesse chiesto scusa, ma non l’ha fatto», ha quasi urlato in aula Maria, la madre di Alessia Pifferi, subito dopo la lettura del dispositivo. Ma davvero? Perché, in 18 mesi di vita, Diana ha avuto una nonna?
A 2 anni non aveva un pediatra, ancora non camminava, non masticava cibi solidi, non era iscritta ad un asilo, non usciva, non vedeva altri bambini; e campava in qualche modo in mezzo allo sporco, non accudita, non consolata, non amata.
«Non ha attenuanti, non è mai stata matta o con problemi psicologici. Spero che possa volare via in pace», ha invece sentenziato la sorella Viviana. E quindi? La bambina avrebbe potuto fare molto, vivere in pace, se solo avesse avuto una zia in più.
«Se lo merita». «Vergogna». «Che schifo». «Cosa c’è di peggio che far morire il proprio bambino di fame? È un atto orribile, atroce, imperdonabile». «Una madre degenere che ha preferito uscire per andare a divertirsi mentre la bimba moriva». «Giusto allora, ergastolo».
Suvvia… E tutti noi? La Comunità? Bravi sempre a lanciare la pietra. Ma la mano? Si, perché tutte le rotelle a posto, Pifferi potrebbe effettivamente non averle mai avute. A partire dal suo stesso gesto e dalle condizioni in cui teneva la figlia. Quale madre potrebbe?
Ed infatti, come raccontato in aula «Alessia ha subito abusi sessuali da piccola, è stata vittima di violenza assistita, non è andata a scuola, ha un deficit cognitivo, ha vissuto senza avere un lavoro, in condizioni di estrema indigenza. Si arrangiava. Ha partorito in un water, non sapeva di essere incinta. Ha vissuto in questo modo».
Forse anche per questo non ha fatto ciò che risulta più normale, più logico, per chi ha deciso e vuole: uccidere la bambina e farla sparire, piuttosto che andarsene e lasciarla là.
Ma ogni torta che si rispetti ha la sua ciliegina, dunque anche questa: «Condannarla all’ergastolo per offrirle una speranza, quella di superare e compensare attraverso la sofferenza della pena il dolore che prima o poi le esploderà dentro», ha sostenuto il pubblico ministero, in aula, davanti ai giudici che, all’evidenza, hanno pienamente condiviso: “fine pena mai”.
Ci ho scommesso da un pò: la Legge è una cosa, la Giustizia un’altra.
- avvocato