di Gerardo Di Martino *
In questi giorni, non si è parlato d’altro. Direi bene, tutto sommato. Benissimo. Un primo punto a favore già lo segniamo. Finalmente si parla di giustizia! Anzi, finalmente si parla di magistratura! Anzi, ancora, finalmente si parla di magistrati.
Si perché, nei giorni in cui la democrazia che ha adottato la separazione delle carriere per eccellenza – dove il pubblico ministero non è un magistrato ma un avvocato ed in alcuni Stati è addirittura eletto dal popolo – processa e condanna un ex Presidente candidato a Presidente, un piccolo passo per il Paese ed un grande passo per i cittadini italiani, l’abbiamo sicuramente fatto.
E non tanto per i benefici o i malefici della riforma, ma perché un po’ tutti oggi, nella baraonda, hanno almeno orecchiato che esiste l’accusatore diverso dal giudice e che esiste il giudice diverso dall’accusatore. Almeno avvertendo, nella ridda di opinioni, che i magistrati non sono tutti uguali e che possiamo definire giudice chi è giudice, non chi accusa o ci accusa.
Basterà allora dare un’occhiata sull’altra china per trovare la chiave di volta rispetto alla babele che regna tra tutti noi che subiamo supini la discussione. Non ci crederete: l’attuale struttura del nostro Ordinamento genera la stessa confusione niente poco dimeno che tra gli attori protagonisti, gli stessi magistrati.
Come? Come dici? Si, avete inteso bene. Perché non è un segreto che i pubblici ministeri si sentano mezzi giudici ed i giudici mezzi pubblici ministeri. Ecco. Proprio così. Siete giunti nel cuore della contesa, con buona pace di mass media, soloni e maestri.
Era una domenica mattina, a metà dello scorso aprile. In casa facevo altro, pur provando un singolare piacere nell’ascoltare in sottofondo la diretta della terza giornata del congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati, il sindacato delle toghe italiane, dalle frequenze di Radio Radicale.
In quel momento non vi era ancora un testo di riforma e chi segue questa rubrica lo ricorderà: fu una scelta ragionata di “Giorgia”, proprio per evitare che la magistratura combattente, avendolo a disposizione, lo impallinasse prima ancora della presentazione alle Camere. Epperò, anche senza testo, come immaginabile, l’arena assaporò subito il fracasso di mazze e lacci.
Insomma, in un clima di chiamata del popolo alle armi, prese la parola un pubblico ministero (poi ho verificato essere un Procuratore della Repubblica Aggiunto a Napoli), dunque un accusatore, uno che è incaricato da tutti noi, nella convinzione che ne sia oltremodo capace, di scovare il crimine, di comprenderne le dinamiche e di tenere bene a mente, dunque, che il più capace è chi riesce a farlo raccogliendo gli elementi che possano valere ad incastrare i criminali.
Quali elementi? Gli stessi da sottoporre successivamente alla valutazione del protagonista di ogni “processo giusto”: un giudice, che a differenza del primo e delle sue convinzioni, li prenda in considerazione senza essere già persuaso di avere di fronte il delinquente, il responsabile di quei fatti che costituiscono reato.
Ebbene, apre il microfono e parla: “Sono un giudice che fa il pubblico ministero”. Salto sulla sedia. Come come come? La mia voce va dritta verso l’inseparabile Alexa per risentire l’intervento. “Vedete … – sostiene questo magistrato che fa il pubblico ministero ma si sente un giudice – … ogni giorno ci sono diverse persone, personale amministrativo, avvocati, polizia giudiziaria che mi chiamano giudice. Io non li correggo mai, non dico mai chiamatemi dottore, chiamatemi pubblico ministero, perché io mi sento e sono un giudice che svolge la funzione di pubblico ministero, ma che avverte forte i doveri del giudice, ragiona come un giudice, con la forma mentis del giudice”.
Siamo al nastro di arrivo, al dato oggettivo da cui muove ogni ragionamento teso alla comprensione di qualunque problema: lo Stato, oggi, è partecipato da magistrati che pensano di poter accusare e giudicare allo stesso modo, con le stesse garanzie e capacità. Anzi, e prima di tutto, con gli stessi risultati, e senza meno.
Sarà pure vero, ma visto che il giudice, e non l’accusatore, ha la responsabilità della nostra libertà, dei nostri patrimoni e delle nostre famiglie; e dato che nelle sue mani è concentrata, in sintesi, non la sua o la loro, ma la nostra vita; e posto ancora che nella sua o nella loro non cambia alcunché, appare molto meglio, ai più, che chi giudica non sia teso a pensare di aver trovato un colpevole. Non fosse altro per cautela.
Sarebbe tra l’altro pure meglio per l’intera Comunità che colui il quale la criminalità deve scovarla, impari a farlo e sappia farlo sempre meglio, senza invischiarsi in altro e senza, così, rischiare grossi buchi nell’acqua. Con un unico e precipuo scopo: acchiappare il delinquente.
Lungo tutto il globo terraqueo, chi è convinto di un’idea, secondo voi, potrà mai cambiarla? Secondo i magistrati, si. Ad ascoltare le nostre compagne e mogli, ma anche i nostri compagni e mariti, no.
E che interesse hanno, poi, i magistrati alla protesta ed alle barricate se la riforma non riguarda la loro vita ma quella di chi è sottoposto a procedimento? E se chi rappresenta il popolo, cioè non loro ma il Parlamento ed il Governo, ritiene che, per tutti, sia meglio così?
Questa non l’ho mai capita. Bah! Forse che sbaglio io? Forse che un vero e proprio interesse, in fondo in fondo, c’è pure per i magistrati ad avere un giudice mezzo pubblico ministero ed un pubblico ministero mezzo giudice? Forse che si?
- avvocato