Di Annarita Rafaniello
Cadono le Torri,
e il cielo si apre in ferite.
Cadono le parole
quando il coraggio tace.
Rabbia che brucia,
orgoglio che trema,
non restare a guardare.
Ci sono mani che scelgono
di rischiare, di esserci,
di navigare il mare
quando gli altri urlano.
Il mondo crolla,
ma chi osa resistere
scrive ancora la storia.
Il 15 settembre 2006 ci lasciava Oriana Fallaci. Una data che cade pochi giorni dopo l’11 settembre, e che sembra legata a quell’anniversario da un filo paradossale, quasi tragico. Il crollo delle Torri Gemelle, cinque anni prima, aveva acceso con urgenza la sua voce: una voce ruvida, appassionata, capace di scuotere coscienze e irritare i benpensanti. Con La rabbia e l’orgoglio, la Fallaci non consegnò al pubblico un’analisi fredda dei fatti, distaccata, impersonale, ma un urlo vibrante di allerta e passione: la rabbia di chi vedeva un’epoca franare, e l’orgoglio di difendere una civiltà che, ai suoi occhi, rischiava di piegarsi.
Quando la Fallaci morì, il mondo perse una voce che incarnava un modo di fare giornalismo diretto, senza infingimenti, senza paura di essere divisivo. È il “doppio crollo”: da una parte la potenza materiale, dall’altra la potenza della parola. E se dopo le Torri il mondo si scoprì fragile, dopo la Fallaci ci accorgemmo che la rabbia, senza responsabilità, rischia di restare soltanto rumore.
Il pericolo silenzioso dell’indifferenza
Oggi, a diciannove anni dalla sua morte, ci domandiamo cosa significhi avere ancora rabbia e orgoglio. In un’epoca anestetizzata, dove il rumore di fondo prevale sulla profondità, il rischio è che entrambe le parole si svuotino. Senza rabbia non c’è indignazione vera; senza orgoglio non c’è identità da difendere.
Per la Fallaci la rabbia era un antidoto contro l’anestesia delle coscienze, l’orgoglio la difesa di un patrimonio culturale e civile che rischiava di sgretolarsi. Allora il nemico era visibile: il terrorismo, la minaccia di chi voleva abbattere un mondo. Oggi il pericolo è forse più subdolo: l’indifferenza, la distrazione, l’incapacità di distinguere tra indignazione autentica e rumore di fondo.
Viviamo in una società iperconnessa, dove le polemiche esplodono in poche ore e svaniscono in poche ore. La rabbia diventa spettacolo, la protesta un hashtag, l’orgoglio uno slogan identitario più incline a dividere che a unire. È un meccanismo che illude: ci fa credere di aver “preso posizione”, ma in realtà non lascia eredità, non costruisce futuro.
Indignazione online: coscienza o specchio?
Vedo ogni giorno centinaia di persone pubblicare immagini della Palestina, post contro Netanyahu, bandiere e fotografie. Ben venga: è giusto indignarsi. Ma lo facciamo davvero per cambiare qualcosa, o solo per comunicare agli altri da che parte stiamo? È impegno o autocompiacimento? È indignazione vera o un like di coscienza?
La Fallaci non avrebbe mai accettato questa anestesia. Non le bastava dire “io sto qui, io penso così”. Esponeva la sua voce, il suo corpo, la sua stessa vita. Accettava il rischio di sbagliare, di essere odiata, insultata. Ma era lì, presente. Non scivolava nel silenzio comodo né nell’urlo vuoto.
Ecco la differenza: rabbia e orgoglio non possono restare confinati in uno schermo. Hanno bisogno di trasformarsi in gesto, azione, responsabilità. Non bastano le parole condivise: occorre il coraggio di esserci davvero.
Le domande scomode della Fallaci.
Impossibile affermarlo con certezza, ma possiamo immaginarlo: Oriana Fallaci avrebbe osservato la superficialità della rabbia social con lo stesso sguardo implacabile con cui smascherava ipocrisie, omissioni e mezze verità. Avrebbe posto con fermezza davanti a ciascuno di noi gli interrogativi che non vogliamo sentire: perché lo fai? Per chi lo fai? Con quale responsabilità?
Avrebbe difeso il diritto a indignarsi, ma pretendendo coerenza. Avrebbe rifiutato la logica del gesto simbolico che si esaurisce in ventiquattr’ore. Ci avrebbe ricordato che la rabbia senza orgoglio si spegne, e l’orgoglio senza azione diventa sterile retorica.
Dal silenzio non nasce storia.
Forse la vera eredità del “doppio crollo” – le Torri e la voce della Fallaci – è questa: non lasciarci trascinare né dall’oblio né dalla superficialità. Non ridurre rabbia e orgoglio a furore cieco, a slogan, a bandiere, ma trasformarli in strumenti per pensare e agire con ardore, in un tempo che preferisce scivolare via leggero.
Lo dimostra chi, oggi, sceglie di non limitarsi a parole o post, ma di tradurre indignazione e dignità in un atto concreto: i volontari che operano sotto le bombe, chi si espone al pericolo per prestare soccorso, chi persevera nel denunciare, senza cedere al timore. Così si muovono i membri della Global Sumud Flotilla, sfidando blocchi e minacce per recare aiuti e restituire visibilità a chi è dimenticato, ricordando che la solidarietà può diventare gesto audace e pubblico. È in questi gesti che rabbia e orgoglio si riconciliano: non nell’urlo effimero, ma nella determinazione di esserci davvero.
E allora ricordare Oriana Fallaci, in questo 15 settembre, significa non solo onorarne la memoria, ma farsi custodi della sua eredità. Rabbia come antidoto all’indifferenza, orgoglio come responsabilità verso ciò che vogliamo salvare. Non è un esercizio di stile: è un’esortazione a non restare spettatori.
Perché dal silenzio non nasce storia. Dal coraggio, sì.