Essere diversamente giovane, come oggi si dice degli anziani, è tante cose messe insieme: la salute fragile, la lentezza nei movimenti, ma soprattutto, in un certo senso, un privilegio. Il beneficio è disporre di un patrimonio importante che è il risultato del proprio vissuto. Tuttavia, proprio in nome di questo si avverte un limite. Quello di non accettare certi cambiamenti come l’inesorabile male che inquina la società. Il che ovviamente non accade se i mutamenti sono finalizzati al bene comune. Un esempio calzante è l’intelligenza artificiale che, con rapidità incredibile, sta cambiando il modo di comunicare. Io che ancora oggi mi rifiuto di consegnare il mio pensiero a questo linguaggio innovativo, mi rendo conto di essere in errore. Me ne accorgo quando subentra la paura. Forse anche perché qualche giovanotto spavaldo, ma grande utilizzatore dell’IA, per dimostrarmi la sua capacità di azione, mi ha fatto vedere degli esempi il cui fine era di ridicolizzare un personaggio o attribuire a qualcuno un linguaggio scurrile o peggio ancora trasformare in negativo chi ha un ruolo di rilievo nella società. Penso che questo modo di procedere sia una strada facile e prevedibile soprattutto se non si possiede educazione, cultura e una propria dignità. Ciò che serve, invece, è giovarsi dell’intelligenza artificiale nell’orientare il pensiero e l’azione verso la migliore versione della convivenza civile. Personalmente nutro una grandissima speranza nell’applicazione dell’IA nel campo della medicina, auspicando – Big Pharma permettendo – che prima o poi si arriverà a sconfiggere quel maledetto pianeta dei tumori.
L’incipit della mia discussione con voi, cari lettori, mi è utile per un raffronto tra ciò che ho appreso, per motivi professionali, e ciò che oggi osservo. Evitando di cadere nella retorica o, peggio ancora, di demonizzare importanti innovazioni che aiutano il mondo a ri-umanizzarsi: credo che senza l’intelligenza umana – di cui è frutto anche quella artificiale – la società non progredisca. Osservo la politica – che per me è stata ispirazione al dialogo, al confronto e alla capacità di mediazione – oggi ridotta ad una competizione al ribasso, con urlatori che immaginano di catturare l’attenzione facendo a gara tra chi è maggiormente in grado di alzare la voce. E qui conta il vissuto, piccolo o grande che sia, ma che nutre il pensiero di tempi diversi, cioè quando la politica era organizzazione per il soddisfacimento dei bisogni dei cittadini. Mi rivedo ragazzo, con l’ambizione di diventare un futuro giornalista, seguire le sedute del Consiglio comunale di Avellino che per qualità di classe dirigente e quantità di obiettivi da raggiungere erano ogni volta una lezione di vita. Tra i banchi del De Peruta dialogavano Manlio Rossi Doria con Ciriaco De Mita; Federico Biondi con Antonio Aurigemma e si discuteva di democrazia e politica estera. Come avvenne nel “caso Lumumba”, eroe africano, assassinato perché responsabile di aver condotto il suo popolo nella libertà contro la schiavitù. Il rispetto tra i consiglieri era sacro, il linguaggio castigato e l’obiettivo era la convergenza sulla soluzione dei problemi. Pensare oggi a quel tempo e paragonarlo all’attuale disgregazione di una città che fa uso del balbettio e quando non vi riesce arriva finanche a minacciare con i pugni se viene scoperta con le mani nella marmellata, nobile sostanza culinaria rispetto al fetore che si libera dai banchi del governo cittadino. Certo, il malaffare c’era anche allora, ma chi ne faceva parte arrossiva di vergogna. Oggi il clima è di impunità. Mi è venuto in mente questo ricordo che non è il solo fra i tanti che affollano il mio vissuto. Recupero dalla memoria quella che si diceva essere la “politica Alta”, fatta di metodo, di ragionamento, di potere, ma anche di mortificazioni. Tutto questo, e d’altro ancora, è descritto in modo eccellente nel saggio “I magnifici sette” di Daniele Morgera. Vado oltre: al metodo di quella classe dirigente. Che ebbe un modello di impegno fondato sullo studio dei problemi — come ho avuto più volte occasione di ricordare — con una scientificità che vedrà ogni componente di quelle squadre politiche, democristiana e comunista, prepararsi per affrontare il problema osservato. Non è per caso che Ciriaco De Mita colloca la sua visione della politica alta, alleandosi al nord con Mazzotta e al sud con Misasi, per portare il Mezzogiorno nel dibattito nazionale. Non è per caso che Nicola Mancino e Gerardo Bianco, il primo studiando le istituzioni, giungerà a un passo dalla Presidenza della Repubblica, e il secondo, con la sua una straordinaria cultura, guiderà il Ministero della Pubblica Istruzione. E ancora Salverino De Vito affronterà i temi relativi a un Meridione in salita e sarà poi Ministro per il Mezzogiorno. E così Biagio Agnes, organizzatore di “Cronache irpine”, sarà nel futuro il più amato direttore generale della Rai, come Antonio Aurigemma, osservando la città, ne diventerà sindaco. Metodo: studiare, conoscere, agire. Così nella Dc, così nel Pci con Freda, Biondi, D’Ambrosio e Fierro, anche con il proposito di collocare l’Irpinia in una strategia di mobilità nazionale con la dorsale Tirreno-Adriatica. Io c’ero quel giorno in cui, nell’osteria di Arminio, padre del poeta bisaccese, De Vito e De Mita disegnarono, intorno a un tavolo traballante, con una matita quasi spuntata, la Lioni–Grottaminarda. Oggi è vergognosamente non completata dopo più di mezzo secolo: la responsabilità è della lunga fila di personaggi che ne fanno uso solo per appuntarsi al petto improbabili medaglie, mentre la strada resta incompiuta. Certo, anche su questo ci sarebbe da distinguere tra il bene e il male, ma quest’ultimo non raggiungerebbe mai le attuali nefandezze di chi la politica l’ha cancellata servendosi dei partiti che mortificano la partecipazione e favoriscono l’abbandono delle urne da parte soprattutto dei giovani.
Non pensiate che questo mio dire debba collocarsi in quel “mondo nostalgico” che rende bello anche ciò che non lo merita. È probabile che la mia età mi renda rappresentante di una generazione vissuta alla frontiera disperata della ricerca del bene comune. L’ultima? Spero di no. Io continuerò a percorrere questa strada sin quando Dio vorrà. Me ne sento responsabile anche come giornalista che ha attraversato vicende e storie umane che hanno alimentato e reso oggi inossidabile il passato, e soprattutto come giornalista che lotta nel presente per il futuro. L’altro giorno, discutendo in redazione con i miei giovani colleghi, ho percepito la loro grande attenzione nel seguire le mie riflessioni sull’informazione: ricordavo, ad esempio, di non aver mai usato, né consentito di usare, linguaggi gridati e notizie “accattivanti” per vendere qualche copia in più. Oggi, purtroppo, accade anche nei grandi giornali e nelle televisioni, dove l’audience cresce se si fa uso di una lingua scurrile o ci si alza dal posto assegnato per tirare un pugno all’avversario. Vorrei tanto che anche noi, come messaggeri di notizie, adottassimo più rigore e rispetto, favorendo la dialettica che porta a una sintesi e non la mera contrapposizione. Conoscenza, Intelligenza artificiale, ma attivando ragione e cuore.
 
		



