Di Monia Gaita
Allineare insieme industrie e sicurezza ambientale non è mai semplice.
Da un lato c’è il diritto al lavoro, dall’altro la sgradita presenza di azoto, cromo, mercurio e polveri sottili. Un matrimonio difficile da farsi, e quando viene celebrato, sappiamo già in partenza che porterà a litigi, offese, botte e musi lunghi.
Due coniugi rissosi in cerca di una conciliazione ardua, eppure irrinunciabile, se si vuole impedire la divaricazione e il nefasto scollamento tra le due necessità fondamentali: la missione produttiva e la salute generale.
Due necessità che scendono spesso in campo agendo con perniciosa desolidarizzazione.
E raramente dialogano in modo sereno al punto che quando un’azienda chiude, la gente esclama con sollievo: “Meno male! Finalmente l’aria sarà più pulita”.
Ma si capisce, i capannoni industriali servono e la corsa dell’uomo al progresso lo ha trasferito dal primo habitat delle caverne, dal nomadismo perpetuo e periodico, dagli utensili in pietra e in osso, alla stagione articolata della modernità.
Oggi viviamo in edifici più confortevoli, ci spostiamo in pullman, in metro, con l’aereo, possiamo lavorare da casa e videotelefonarci anche da continenti separati.
Tutto questo grazie alla svolta profonda della tecnologia.
Peccato che a questa svolta sia mancato il fabbisogno nutritivo di un fertilizzante prezioso: l’amore per i luoghi.
Ecco, allora, che i luoghi, potendo decidere da soli, si ribellerebbero, offrendo il proprio corpo a chi ne abbia cura.
Nella guerra del Pacifico (1865-66), quando l’ammiraglio americano minacciò di affondare le navi spagnole di legno con le sue navi di ferro, il comandante spagnolo rispose: «La Spagna preferisce l’onore senza le navi alle navi senza onore».
A noi non piacerebbe rispondere: «I paesi preferiscono l’onore dell’aria pulita alle industrie senza onore», ma reputeremmo più giusto dire: «Vogliamo l’onore di un’industria pulita dalla coscienza ecologica che onori la natura e la protegga».