Marcinelle, 68 anni dopo, la memoria di una delle più grandi tragedie del lavoro, dell’emigrazione, dello sfruttamento, che si consumò nella miniera del Belgio l’8 agosto 1956. Morirono 262 lavoratori di varie nazionalità, 136 gli italiani, molti di loro erano irpini, per la maggior parte provenienti da Conza della Campania e Volturara Irpina. Il più giovane non aveva ancora 16 anni. Era di Cervinara.
Marcinelle, il monito a non ripercorrere pratiche di negazione dei diritti umani, e che però resistono, e sono di stretta attualità.
«Marcinelle rappresenta lo spartiacque della storia europea e italiana: l’emigrazione ieri, la mobilità oggi. L’Italia è una Repubblica nata sull’emigrazione. La prima risposta, dopo quella catastrofe, fu il Trattato di Roma, che sancì la libera circolazione. Le catastrofi sono processi di accelerazione della storia», dice al Corriere dell’Irpinia l’onorevole Toni Ricciardi mentre sono in corso le celebrazioni a Marcinelle.
Il vicecapogruppo Pd Alla Camera, di origine irpina, storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra, è autore, tra le altre pubblicazioni, del libro per Donzelli “Marcinelle, 1956- Quando la vita valeva meno del carbone”.
«Quella catastrofe ci fa venire subito in mente l’attualità della cronaca, lo sfruttamento, il caparalato – continua – Lo Stato all’epoca sancì lo scambio di esseri umani con il carbone, di cui si aveva bisogno, e che alla fine non arrivò nemmeno. Ma fu anche l’unico accordo siglato, dal 1861 al 1955. L’accordo che oggi sigla il Governo con l’Albania è lo stesso di allora. Ma la tragedia di Marcinelle segna anche una frattura, perché avviò il processo di integrazione europea, per i 14 milioni di italiani trasferiti dal dopoguerra agli anni Settanta nei vari paesi europei».
Resta la storia dello sfruttamento e della sicurezza sul lavoro.
«Sì, serve attenzione da parte di tutti, non retorica, servono risorse da investire. Si fa un gran parlare oggi di immigrazione irregolare o clandestina, ci si preoccupa dell’ammalato e non della malattia. Alla fine, i migranti arrivati in Italia per chi lavorano? A chi fa comodo che continuino in questo modo? Questo la dice lunga su come venga gestita la vicenda. Non mi sembra tanto difficile fare azioni rispetto ai tanti imprenditori agricoli e non solo ».
La proposta?
«Riproporrò il mio ordine del giorno sul Piano Mattei: lo Stato dovrebbe disciplinare gli arrivi, attraverso centri in cui effettuare visite mediche, una storia già vissuta. Si chiudano accordi in tal senso. In realtà, in queste materie c’è sempre un convitato di pietra, che è la demografia: abbiamo bisogno di 4-500mila persone l’anno se vogliamo mantenere lo stato sociale».
E poi l’emigrazione oggi, il Sud svuotato. E’ più emigrazione o mobilità?
«L’emigrazione o mobilità di oggi assomiglia a quella ottocentesca e del secondo dopoguerra: si parte e difficilmente si torna. Nel secondo dopoguerra, gli anni Sessanta-Settanta, si partiva dal Sud, dall’Irpinia, ma con il progetto di rientrare: si è così conservata una generazione e mezza. Emigrazione che è ripresa alla fine degli anni novanta, fino a raggiungere il punto massimo: è partito tutto quello che poteva partire, negli ultimi venti anni si è viaggiato al ritmo di duemila residenti l’anno andati via, come provincia siamo scesi sotto i 380mila abitanti. Questa è la fotografia della realtà, partendo dalla storia che dovremmo imparare a leggere, e attualizzarla».