Tanti gli spunti di riflessione emersi dal confronto “Lungo i sentieri del sacro…” promosso dalla Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali (SIPBC), delegazione autonoma della provincia di Avellino, tenutosi presso la Confraternita della Buona Morte di Montefalcione. Un incontro che è stato l’occasione per ricordare Giuseppe Martignetti (1939-2021), artista montefalcionese, che nel corso della sua lunga e prestigiosa carriera ha raccontato la sofferenza, la miseria, il lavoro, l’ingiustizia, l’amore materno. Uno dei pochi artisti che ha offerto gratuitamente al pubblico molte delle proprie opere. A partecipare all’incontro Mario Baldassarre., il presidente SIPBC-Av Nunziante de Maio, l’architetto Maria Anna Martignetti, la scrittrice ed esperta in conservazione e protezione dei Beni Culturali Giovanna Nicodemi, la prof.ssa Annamaria Cafazzo e il filosofo Fausto Baldassarre. A moderare il convegno sarà sociologo Paolo Matarazzo. Proponiamo di seguito l’intervento di Giovanna Nicodemi
Giovanna Nicodemi
Partendo da un punto vista tecnico, la singolarità della Via Crucis del professore Giuseppe Martignetti, ha il pregio di sfatare un mito, quello che con il calcestruzzo si possono costruire solo strade, palazzi ponti e marciapiedi. Invece il calcestruzzo ha due capacità importanti e il “nostro professore” lo sapeva bene: è un materiale poco costoso da un lato e molto resistente alle intemperie dall’altro, costituito da silicati e alluminati e si ottiene miscelando cemento, sabbia e acqua. In realtà le statue che fanno parte dell’intera composizione sono state realizzate in cemento armato dove l’anima interna, opportunamente sagomata, è formata da rete metallica su cui, poi, a mò di rivestimento è stato modellato un composto cementizio ricoperto da una patina metallica che simula il bronzo a sua volta, poi, rivestita da un vetrificante acrilico che crea un film protettivo e impermeabilizzante per evitare lo sfaldamento del materiale sottostante e la sua polverizzazione.
Un’opera poderosa questa Via Crucis, costata ore di lavoro al suo artefice che, con grande generosità e amore, ha voluto donare alla sua cittadina, Montefalcione.
L’intera composizione è costituita da 50 statue quasi a grandezza naturale la cui narrazione comprende le canoniche 14 stazioni più altre 2, e già in questo si denota la lungimiranza dell’artista dato che egli anticipò quello che si sta pensando oggi in ambito ecclesiastico, vale a dire l’aggiunta di un’altra stazione a rappresentare la Via Lucis, vale a dire la Resurrezione. Infatti, delle 2 stazioni aggiunte dal Martignetti, la prima è una sorta di antefatto che riassume tutto ciò che precede la Via Crucis vera e propria, quindi gli episodi dell’Orto degli Ulivi, il bacio di Giuda con il suo relativo tradimento, l’arresto di Gesù e il supplizio della flagellazione; la seconda stazione, per così dire, contempla il logico finale con la Resurrezione di Cristo, a chiudere quella che io chiamo, nel mio ultimo saggio storico-artistico “Eloì, Eloì lemà sabachthanì? Temi ed Iconografia della Passione di Cristo nelle Arti Minori: Scultura in legno e terracotta, XII-XVII secolo” …, una sorta di “fiction ante litteram” in cui i momenti salienti della Passione di Cristo vengono scanditi in “atti” di una lunga e dolorosa narrazione sacra che io definisco “pentalogia funebre” perché costituita da 5 episodi salienti. Nel percorrere il cammino su cui si dislocano le statue ci si accorge che il nostro ruolo di fruitori, di riguardanti curiosi è mutato. Siamo divenuti anche noi attori di una Storia, quella tra le più affascinanti storie dell’umanità e non importa se non siamo cattolici, non importa se siamo agnostici o apparteniamo ad altra religione, islamica, buddista o induista, siamo tutti, di fronte al sacrificio di un uomo, dell’Uomo, consapevolmente attoniti di aver avuto un dono: l’insegnamento a trasformare la parte più brutta, più disprezzata dell’esistenza, la sofferenza, il dolore per la sua caducità, in un atto divino, in una indiscussa capacità di poterci elevare al di sopra del finito.
A tutto ciò fa da sfondo un contesto che sembra creato apposta se non fosse che l’ambito in cui le opere sono istallate è una perfetta scena naturale, quasi un “luogo del destino”, perché scenario quanto mai idoneo. Infatti, esso è un sentiero panoramico che s’inerpica in salita a cui fa da sfondo la Valle del Sabato che s’intercala tra il Cervialto e oltre la valle Caudina, percorso ideale, quindi, in cui poco ha agito la mano dell’uomo se non ad individuarlo e a migliorarlo per opportunamente esaltare l’intera istallazione del professor Martignetti. Infatti, il sito è l’antico sentiero Ripa che giunge alla località chiamata Foresta dove è ubicata una Cappella edificata nel 1895. Si tratta di un piccolo edificio non di grande importanza dal punto di vista artistico ma sicuramente di grande valore devozionale per gli abitanti di Montefalcione. È da lì, infatti, che parte, per chi volesse seguirlo, il cammino della via Crucis scandito dalle statue del professore a “teatralizzare” le 16 stazioni partendo con il cosiddetto antefatto, che fa da introduzione all’intero rito, per terminare all’ingresso del paese con la rappresentazione della Resurrezione.
E proprio l’insieme di istallazioni del Martignetti ci conduce, stricto fatto, ad esaminare il rapporto di tale opera con, in senso più ampio, la storia dell’Arte.
Il professore Martignetti, che ha insegnato Educazione artistica in varie scuole medie come a Montalbano Ionico, in provincia di Matera, o poco distante da Avellino, a Prata P.U., doveva conoscere molto bene la materia e, soprattutto, sapeva ancor meglio dove volgere il suo sguardo per trarre ispirazione tra le varie correnti artistiche della storia dell’Arte, e realizzare i suoi vari, identici e differenti, protagonisti dei suoi gruppi scultorei. Egli ha rappresentato quel sacro rito cattolico, la Via Crucis, vedendolo attraverso le lenti delle proprie emozioni per ottenere il raggiungimento di un’espressione efficace, capace di stimolare, impressionare, coinvolgere lo spettatore. La sua primaria azione, quindi, è stata quella di trarre spunto dall’avanguardia artistica tedesca, vale a dire dall’Espressionismo che tra il 1905 e il 1925 si sviluppò in Germania, proponendo una rivoluzione del linguaggio pittorico che contrapponeva all’oggettività dell’Impressionismo la soggettività dell’Espressionismo. Quest’ultimo, infatti, affermava che la coscienza soggettiva dell’artista doveva imporsi sulla realtà oggettiva, doveva, in pratica, avviare un moto che va dall’interno all’esterno, dall’anima dell’artefice direttamente nella realtà, senza mediazioni, ostacoli o filtri di qualsiasi natura. Ed è qui che, allora, si estrinseca la parte spirituale dello scultore, il principio vitale dell’uomo Martignetti che enfatizza, nelle sue sculture, l’espressione intensa delle emozioni umane, cercando di catturare sensazioni come l’angoscia, il dolore, la paura, la rabbia ed anche la gioia in modo crudo, sincero e diretto attraverso il suo lavoro, l’uso delle sue mani che contorcono, piegano, miscelano, assemblano materie diverse come se, emblematicamente, miscelassero la vasta gamma degli impulsi umani. Ed è qui, proprio qui, che si riconosce l’artista Giuseppe Martignetti che è riuscito a rivolgere e a proiettare verso i riguardanti, verso il mondo esterno, la sua sfera psichica, le sue emozioni, i suoi moti dell’animo, traslandoli empaticamente su di loro, su coloro che osservano i suoi gruppi scultorei, tanto da trasformarsi, essi stessi, in attori di una storia universale, la più bella storia universale, quella in cui si racconta di un Dio, il nostro Dio per i cattolici, che, attraversando il dolore, con vere ossa e vero sangue, si è fatto Uomo. Le sue creazioni, secondo me, rimandano come punti di riferimento più che ad artisti italiani come Schifano o Burri per dirne qualcuno o a quelle del tedesco Ernst Barlach che è stato tra i padri fondatori dell’Espressionismo germanico, alle sculture in bronzo dell’americana Doris Porter Caesar (1892 – 1971), nota per le sue creazioni che prediligevano la figura femminile nuda e il cui lavoro la portò ad allontanarsi dalle forme classiche, come appunto avviene nelle opere di Martignetti, e a iniziare a distorcere le figure che scolpiva piegandole ad inusitate deformazioni che meglio rappresentassero gli sconvolgimenti dell’animo umano. O anche all’altro grande scultore anch’egli americano, Robert Cook (1921 – 2017), che scelse di vivere e lavorare in Italia, Paese più consono alla sua sensibilità, a Canale Monterano, in provincia di Roma. Egli, ugualmente come Giuseppe Martignetti, estrinsecò la sua vena espressionistica nelle sue sculture in bronzo attraverso l’uso di materiali del tutto originali: la fusione a cera persa che utilizza la cera d’api e la struttura delle canne di bambù. Martignetti, quindi, traendo spunto dai presupposti maturati dall’avanguardia Espressionistica puntualizza una sua definita cifra stilistica: nell’atto di realizzare le sue opere, egli non trasferisce in esse solo i dati assunti dalla propria percezione, ma anche e soprattutto il suo modo di interpretare la realtà, perché ciò che si vede oggettivamente è sempre filtrato dall’animo dell’artista, con tutti i suoi turbamenti e le sue passioni. Proprio questa esperienza emozionale, ma anche quella spirituale della realtà la si ritrova come elemento fondante, ad esempio, nel toccante gruppo della tredicesima stazione, quella dove è rappresentata, dopo il Compianto sul Cristo morto, la Pietà. Questo episodio, e qui mi autocito di nuovo riportando le mie considerazioni scritte nel mio saggio “Eloì, Eloì lemà sabachthanì? Temi ed Iconografia della Passione di Cristo…, è una probabile contrazione della più vasta scena del Compianto, come se in quest’ultimo si sia prodotta una sorta di isolamento di un solo frammento in cui i protagonisti sono solo la Vergine ed il Cristo. Nella Pietà, e qui nelle statue di Martignetti, a differenza del Compianto, dove alla straziante consapevolezza della morte di Gesù in cui il dolore di Maria non è solo e unico ma straordinariamente collettivo per la presenza degli altri compartecipanti, si sostituisce la solitaria disperazione, del tutto privata, tra due singole immagini: quella della Madre e quella del Figlio… Difatti, nell’accorato atteggiamento realizzato da Giuseppe Martignetti della Madre che avvolge e serra a sé, con quieta ma struggente disperazione, nell’ultimo abbraccio suo Figlio, il suo bambino, sembrano concretizzarsi le parole scritte in un testo inserito nel Menologio di Basilio II, il Discorso sul lamento funebre della Madre di Dio, di Simone Logoteta, detto il Metafraste, agiografo bizantino del X-XI secolo, che sembra essere stato la dipendenza letteraria da cui è disceso poi il tema iconografico della Pietà. Infatti, proprio le parole che il Metafraste immagina che dica la Madonna: “Sul mio seno, tu hai spesso dormito il sonno dell’infanzia, ora tu vi dormi il sonno della morte”, vengono puntualmente tradotte dal “nostro” artista, modellando ed assemblando un conglomerato materico, in un’opera intensa che trasuda tenerezza e commozione. Giuseppe Martignetti, da tutti noto come Peppino, ha saputo distinguersi per aver sviluppato, sia tecnicamente che sensibilmente, una ricerca espressiva propria, un suo stilema non convenzionale bensì ampiamente originale, imponendosi con una personalità artistica ben definita, scegliendo di rappresentare una prospettiva diversa: ritrarre ciò che il mondo provava piuttosto che il suo aspetto.