Riceviamo e pubblichiamo da Valeria Luongo
Nella Striscia di Gaza è in atto una vendetta atroce perpetrata da un sedicente governo democratico, quello israeliano di Netanyahu, ai danni del popolo palestinese. Per un pugno di terra è in corso una strage di innocenti. È difficile esprimere il dolore, l’incredulità, l’impotenza di fronte alla disumanità al potere. Con il pretesto di stanare i terroristi di Hamas, responsabili dell’attentato del 7 ottobre del 2023 che costò la vita a uomini, donne, bambini, vittime innocenti della brutalità degli aggressori, il governo di Israele sta annientando un intero popolo riducendolo perfino alla fame, nel tentativo di scacciarlo dalla propria terra. Netanyahu, con una crudeltà inaudita, non ha esitato ad emulare i crimini dei terroristi. Mentre sto scrivendo, bombarda case, scuole, luoghi di culto, ospedali, punti di distribuzione di cibo, per colpire, a suo dire, i criminali. Le vittime civili, per lui, sono danni collaterali. Netanyahu, per la barbarie del 7 ottobre, ebbe la solidarietà del mondo intero, ma invece di trasformare quell’odio in una risposta di senso opposto, basata sulla forza della legalità, sta applicando, moltiplicando a dismisura il numero delle vittime, la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. E il mondo, tranne le dovute eccezioni, mentre il popolo palestinese è tra due fuochi, strumento di “occhiuta rapina”, sia da parte di Hamas che di Netanyahu, tace. È chiaro, inoltre, che il governo di Israele non sta facendo niente per liberare gli ostaggi israeliani nelle mani dei terroristi.
La mia rabbia, che già è tanta, sale, quando ascoltando qualche dibattito televisivo, sento affermare da esponenti di destra del panorama politico nazionale il cui senno è trasvolato sulla luna, che a Gaza si sta esagerando con il numero dei morti, ora inaccettabile, come se si trattasse degli effetti indesiderati di un’indigestione. Sostengono, inoltre, con una disinvoltura stupefacente, che la reazione a caldo del governo israeliano all’indomani del 7 ottobre, era stata un atto di giustizia comprensibile, e perché no (alla stupidità, purtroppo, non c’è mai fine), condivisibile. Per loro, dunque, la vendetta può essere una risposta all’ingiustizia. Almeno Biden, dopo il 7 ottobre, ebbe la lucidità di suggerire a Netanyahu di non fare lo stesso errore che avevano fatto loro successivamente all’attacco sferrato alle Torri Gemelle. Io, a differenza degli uni e dell’altro, ritengo che neanche una goccia di sangue innocente andava versata dopo quell’eccidio. Compito dello stato, di uno stato legittimamente eletto, non è quello di vendicarsi, ma di far rispettare le leggi, altrimenti regnerebbe il Far West.
Lo stato deve avvalersi della forza del diritto, non di quella delle armi: Putin, Hamas, Netanyahu e tutti i tiranni liberticidi, per i loro crimini, avrebbero dovuto tempestivamente essere assicurati alla giustizia e processati in modo esemplare davanti alla Corte Penale Internazionale. È questa l’unica via, quella maestra, per una pace giusta e duratura. La violenza produce solo altra violenza con l’aumento dei fenomeni terroristici, contro i quali, si afferma, di voler intervenire con il pugno duro. La senatrice Segre ha condannato aspramente il massacro di cui si sta macchiando il governo israeliano. Liliana, sopravvissuta all’Olocausto, sta rivivendo le sue sofferenze di bambina e soffre per i bambini di Gaza. Le sue parole di disapprovazione e quelle di altri esponenti del mondo ebraico hanno rotto il silenzio e inciso sulle coscienze: non avrebbero mai voluto che il governo del loro popolo, che aveva patito il genocidio, si rendesse responsabile di crimini così efferati. Sono sempre quei politici “illuminati” di cui ho parlato, a suscitare il mio stupore. Secondo loro l’aumento dell’antisemitismo è dovuto alla condanna, senza se e senza ma, della Sinistra nei confronti di Netanyahu, per la sua scelta di rispondere alla violenza con la violenza. Il loro modo di ragionare, a mio avviso, è contorto. Guardano il dito e non la luna. A fomentare, ad accrescere l’odio tra i due popoli è proprio la spirale di violenza innescata dai governanti dello Stato d’Israele che hanno deciso di imboccare la strada della vendetta e non quella della legalità. Quella tra la Palestina e Israele è una questione annosa. Coincide con la nascita stessa dello Stato di Israele nel 1948. Avevo 18 anni nel ’68, il fatidico anno con il quale si indica l’esplosione della contestazione giovanile. Tra le tante problematiche di cui discutevamo, c’era anche la questione palestinese. Io, sessantottina, come parte lesa, aderii con molto entusiasmo al movimento. L’unione sarebbe stata il nostro punto di forza per sollecitare il cambiamento cui aspiravamo nell’ambito delle istituzioni: nella famiglia, nella scuola, nel mondo del lavoro. E tante furono le conquiste in ambito sociale.
Eravamo, dunque, sulla strada giusta. La scelta della lotta armata, l’estremismo con il conseguente fanatismo, segnarono uno spartiacque, un punto di frattura insanabile nel movimento. Dov’era finito l’invito a mettere i fiori nei cannoni durante la guerra del Vietnam? Ci svegliammo di colpo dal sogno alla prima rivendicazione del sangue versato. La scelta della violenza non mi appartenne e non mi appartiene. Nel marzo del 1978 ero in clinica per dare alla luce la mia prima figlia, quando il buio piombò nel mio cuore, in quello di tutti gli italiani e non solo. In quei giorni fu rapito Aldo Moro e gli uomini della scorta furono trucidati dai terroristi della stella a cinque punte. Quanta cecità, quanta incoerenza da parte delle Brigate Rosse! Chiesero la liberazione di due terroristi militanti per il rilascio dello statista. Speravo con tutto il cuore nel successo della trattativa (se pensiamo a quelle odierne…) Prevalse invece la linea dell’inflessibilità. Si decise di calare il sipario sulla vicenda, di sacrificare, per la ragion di Stato, la vita di un uomo buono, onesto, mite, inclusivo, e perciò, forse scomodo per gli uni e per gli altri. E furono tanti i servitori dello Stato, così definiti sprezzantemente dai terroristi, come se lo Stato non fossimo noi, ad essere spietatamente uccisi nell’adempimento del loro dovere. Erano gli anni di piombo vissuti con la paura cucita addosso. Il terrorismo, con varianti di destra e di sinistra, insanguinò le nostre strade. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa usò i piedi di piombo per combattere il fenomeno, per evitare danni collaterali, per non far affondare, dico io, tutto il bastimento insieme ai terroristi. Avrebbe usato gli stessi metodi contro la mafia se non glielo avessero impedito con l’attentato che pose fine alla sua vita, a quella della moglie Emanuela Setti Carraro e degli uomini della scorta. La sua eredità morale fu raccolta da Falcone, Borsellino e altri magistrati. Persero la vita, ma sono più vivi che mai e ci indicano la strada da seguire nel cammino della civiltà. Nei giorni scorsi è stato liberato Brusca, l’esecutore materiale della strage di Capaci e di tanti spietati crimini. Per scontare la sua pena avrebbe dovuto vivere quanto Matusalemme. Per la legge sui pentiti è un uomo libero. Le parole di Maria Falcone hanno spento la sete di giustizia mia e di tante altre persone, e hanno posto fine a sterili polemiche. Era stato proprio Giovanni a volere la legge sui pentiti, ha dichiarato, nell’intento di combattere, ho dedotto, nel modo più rapido possibile, il fenomeno mafioso.
Il mio pensiero è andato a Maria Fida Moro. Volle, nonostante l’immenso dolore che le era stato inflitto, incontrare gli uccisori del padre. L’opera letteraria “Un’azalea in via Fani” di Angelo Picariello, testimonia la necessità di uno sforzo eroico da parte delle vittime, per una riconciliazione tra le parti in causa. L’autore indica, così, la strada giusta per una reale e significativa svolta storica: il riconoscimento degli errori da parte degli aggressori e il perdono dell’aggredito. Il ricorso alla violenza, la vendetta non risolvono i problemi. Ne compromettono la soluzione. Creano il terreno fertile per derive autoritarie, per il ripristino dello “status quo ante”. Scavano solchi, crepe profonde nel tessuto sociale, ed è proprio in quelle fratture che trovano spazio i “cattivi maestri”. Concludo, ritornando a Gaza, con le parole del cardinale Carlo Maria Martini che ho trovato stampate su un mio quaderno di pace del 2000: “Quello tra la Palestina e Israele è uno dei processi di pace più delicati e difficili, ma insieme più necessari del pianeta. Non ci sarà pace nel mondo finché non regnerà in quelle terre piena pace. E tutti gli sforzi di pace in quelle terre avranno una ripercussione straordinaria sul pianeta intero.”