“Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;
Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell’uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo;
Considerato che è indispensabile che i diritti dell’uomo siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione;(..)”
Sono passati settantadue anni dal 10 dicembre 1948 quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, riunitasi a Parigi, approvò la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, promettendo all’umanità uscita stremata dagli orrori della seconda guerra mondiale l’inizio di una storia nuova.
Ancora oggi non è retorico affermare che la Dichiarazione universale rappresenta un punto di svolta nella storia e costituisce una sorta di Magna Carta dell’umanità.
Già dal preambolo, in due punti fondamentali, si esplicitava la filosofia che regge l’intero impianto. Il primo è che esiste una sola famiglia umana. Ciò comportava il rovesciamento e la radicale delegittimazione non solo delle teorie razziali che avevano alimentato i regimi nazifascisti, ma anche di consuetudini, tradizioni, legislazioni all’epoca ancora vigenti. Il secondo, conseguenza del primo, è il riconoscimento della ontologica dignità di tutti i membri della (unica) famiglia umana, che sono perciò titolari di diritti uguali e inalienabili, e, dunque, universali.
Per quanto l’idea generale e la stessa terminologia utilizzata riflettano momenti della storia del pensiero e delle istituzioni politiche dell’Occidente, la Dichiarazione universale non è riducibile a espressione di una cultura particolare. La sua universalità, nonostante l’inevitabile forma storica del linguaggio, consiste nella capacità di riflettere istanze fondamentali, riscontrabili in ogni cultura (del Nord e del Sud) e nelle grandi tradizioni religiose (d’Oriente e d’Occidente), riconducibili all’esigenza del rispetto e dello sviluppo integrale della persona. La Dichiarazione è il punto d’incontro e di raccordo di concezioni diverse dell’uomo e della società, una specie – come è stato scritto – di «decalogo per cinque miliardi di individui» che ha avuto il merito «di formulare un concetto unitario e universalmente valido di valori che dovevano essere difesi da tutti gli Stati nei loro ordinamenti interni».
Essa rappresenta il punto più alto della svolta che la comunità internazionale ha operato dal 1945, creando un nuovo ordinamento di istituzioni e di diritti, a partire dalla Carta della Nazioni Unite, inteso a costruire la pace attraverso il diritto e a cambiare il diritto, inserendovi come suo connotato essenziale il riconoscimento della dignità della persona e dell’universalità dei suoi diritti fondamentali. La Dichiarazione universale è il patrimonio morale che l’Occidente ha edificato per l’umanità intera. Dopo la Dichiarazione universale non è più concepibile, come in passato, un diritto della tortura, un diritto della discriminazione razziale, un diritto della schiavitù, né sono giustificabili gli orrori delle guerre.
Dopo 72 anni dobbiamo constatare che quella promessa di una storia nuova è rimasta largamente inattuata, anzi i valori ed i principi consacrati nella Dichiarazione universale ogni giorno vengono apertamente contraddetti e contestati. Dobbiamo concludere che la Dichiarazione universale non è più attuale? Che il rispetto dei diritti dell’uomo non è più un traguardo a cui tutte le società umane devono puntare? Che in alcuni contesti culturali ci possa essere una declinazione alternativa dei diritti umani, com’è avvenuto con la Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’Islam (1981)? Basti pensare che l’art. 2 di tale Dichiarazione prevede che: “è vietato sopprimere la vita tranne che per una ragione prescritta dalla Shari’ah.” Quindi le donne che partoriscono un figlio fuori dal matrimonio possono essere legalmente lapidate, come ancora oggi avviene in Iran e Arabia saudita?
Dobbiamo concludere che i diritti dell’uomo devono essere etnicizzati come vogliono i sovranisti di casa nostra, che hanno inventato lo slogan: prima gli italiani, o devono ancora oggi essere considerati universali, cioè validi per ogni uomo e ogni donna in ogni contesto geografico o culturale, come pretende la Dichiarazione del 48?
di Domenico Gallo