di Stefano Carluccio
C’è un sogno che negli ultimi anni ha preso forma tra le colline e le valli dell’Irpinia, un sogno fatto di connessioni veloci, scrivanie con vista sui boschi e ritorni desiderati. È il sogno dello smart working al Sud, una prospettiva che, se ben coltivata, potrebbe trasformarsi in realtà stabile e sostenibile. Dopo l’accelerazione digitale imposta dalla pandemia, il lavoro da remoto è diventato per molti una possibilità concreta, e in tanti hanno cominciato a interrogarsi sulla possibilità di lavorare da casa, o meglio, di lavorare da una casa lontana dai grandi centri urbani, magari nella propria terra d’origine. In questo scenario, l’Irpinia si è rivelata non solo rifugio temporaneo, ma anche potenziale laboratorio di un nuovo modello di vita e lavoro. Chi ha origini irpine e vive a Milano, Roma o Torino sa bene cosa significa il distacco forzato, le radici sospese, la nostalgia dei luoghi familiari.
Con lo smart working, però, si è aperto uno spiraglio. Alcuni giovani professionisti hanno deciso di tornare in Irpinia, magari per qualche mese all’anno, per lavorare a distanza dalle case dei nonni o dalle abitazioni lasciate vuote da tempo. Altri, invece, hanno fatto scelte più radicali, trasformando quel ritorno temporaneo in una nuova quotidianità. È qui che il sogno diventa possibilità: se le condizioni giuste vengono messe in campo, lavorare stabilmente da sud non è solo un’utopia, ma un’opzione percorribile. Tuttavia, perché questa possibilità diventi una vera opportunità, servono infrastrutture adeguate, politiche territoriali lungimiranti e una visione condivisa.
La questione della connettività, ad esempio, resta centrale. In molti comuni irpini la banda larga è arrivata, ma non ovunque con la stessa efficienza. Ci sono ancora zone dove la rete è instabile, o del tutto assente, rendendo difficile sostenere videoconferenze o lavorare su piattaforme digitali complesse. Eppure, la tecnologia c’è e le risorse per colmare questi gap esistono. Il PNRR e altri fondi europei hanno previsto investimenti mirati, ma la loro messa a terra richiede progettazione, visione e, soprattutto, velocità. Un’altra sfida è quella culturale. Il lavoro da remoto rompe con modelli organizzativi tradizionali, richiede fiducia, autonomia e nuove forme di collaborazione. Non tutte le aziende, e nemmeno tutti i lavoratori, sono pronti a questo cambiamento. C’è chi teme l’isolamento, chi fatica a trovare un equilibrio tra lavoro e vita privata, chi ha difficoltà a organizzarsi senza la struttura fisica dell’ufficio.
Per questo motivo, accanto all’infrastruttura digitale, servono anche spazi fisici di co-working, luoghi condivisi dove i lavoratori possano incontrarsi, scambiarsi idee, costruire reti. In Irpinia, esperienze di questo tipo stanno nascendo, seppure ancora in forma embrionale. In alcuni borghi, vecchi edifici pubblici sono stati trasformati in spazi di lavoro condiviso, anche grazie al contributo di associazioni locali o start-up legate al territorio. È un primo passo, ma il potenziale è enorme. Lavorare da sud, e in particolare dall’Irpinia, non è solo una scelta economica o logistica. È anche una scelta esistenziale, di stile di vita. Chi torna, spesso lo fa per ritrovare un ritmo diverso, per vivere in un contesto meno frenetico, più a misura d’uomo. La qualità della vita, l’aria pulita, i paesaggi, la possibilità di vivere vicino alla famiglia, sono elementi che pesano nella scelta. Inoltre, questo ritorno può innescare processi virtuosi: ripopolamento dei piccoli centri, rilancio delle attività locali, nuove occasioni per il turismo e la cultura. In altre parole, lo smart working può diventare leva di sviluppo per l’intero territorio, se accompagnato da politiche intelligenti e da una visione di lungo periodo. È importante, però, non cadere nella retorica. Lavorare da remoto in Irpinia non è, per tutti, facile o sostenibile. Chi rientra spesso incontra difficoltà nel trovare servizi, reti professionali, opportunità di crescita.
Le istituzioni, da parte loro, sono chiamate a fare sistema, a mettere in rete le buone pratiche, a favorire il dialogo tra pubblico e privato. Serve una strategia, ma anche la capacità di ascoltare i bisogni reali dei cittadini e dei lavoratori. I comuni possono giocare un ruolo cruciale, diventando facilitatori, promuovendo politiche di accoglienza, investendo in digitalizzazione, creando connessioni tra chi arriva e chi è rimasto. Non va dimenticato, inoltre, il ruolo della comunità. Perché il ritorno sia davvero possibile, è necessario che chi rientra trovi un tessuto sociale vivo, aperto, pronto ad accogliere. In questo senso, le nuove tecnologie possono aiutare, ma da sole non bastano. Servono relazioni, fiducia, partecipazione. L’Irpinia ha una grande risorsa in questo: la sua identità forte, la sua memoria condivisa, il senso profondo di appartenenza che spesso lega chi parte e chi resta. È su questo capitale umano che si può costruire un nuovo modello di sviluppo. In conclusione, lavorare dal Sud, e dall’Irpinia in particolare, non è solo un sogno. È una possibilità concreta, ma fragile. Dipende da scelte politiche, da investimenti mirati, da un cambiamento culturale. Dipende anche dalla capacità di immaginare un futuro diverso, in cui la tecnologia non allontana, ma riavvicina. Se questa sfida verrà raccolta, lo smart working potrebbe diventare non solo un’opportunità individuale, ma una strategia collettiva per ridare senso e futuro a una terra che troppo spesso ha visto partire i suoi figli senza possibilità di ritorno.