“Gli eventi che ognuno di noi vive, sono una commistione di mito e realtà; una commistione che emerge in maniera plastica nei versi dell’autrice campana. A cominciare dalla prima sezione, si ha la sensazione che il mito riveli il reale, ne segni le vicissitudini; è una sorta di diagramma che non svaluta mai nessun evento neppur minimo della vita umana”. Spiega così Giuseppe Cerbino la cifra distintiva di “Campi di Luce”, nuova raccolta, edita da Controluna, della poetessa Maria Consiglia Alvino, fortemente influenzata dal legame dell’autrice con la cultura classica, tra luoghi, personaggi e simboli “Ciò che accade acquisisce significato nella narrazione versificatoria che fa emergere sempre un’Itaca nei luoghi a noi cari”. Miti che entrano con forza anche nel racconto di sè stessa “Sono nata tra colline e miti feroci/cerco la luce in estate, spiragli di Altro/le lettere greche sanno di mare/da bambina era così/Ulisse mi prese tutta l’infanzia/Poi il freddo e l’Europa/Una casa ci vuole, come il presente./Itaca è vicina./Continuo a viaggiare”. Come se i canti degli eroi di Omero e Virgilio, di Eschilo e Sofocle fossero l’unico metro di paragone possibile, protagonisti dell’immaginario dell’autrice, pur nella consapevolezza che non è più il tempo di divinità ed eroi. Costante il legame tra uomo e natura, che emerge in tutta la sua bellezza e il suo mistero, raccontato con un linguaggio che riesce sempre ad andare al di là di luoghi comuni e immagini stereotipate, rivelando in questo modo la sua essenza, per scoprire che “A volte un tramonto dischiude campi di luce”. Mentre le memorie d’infanzia fanno continuamente capolino “Tu non ricordi il pontile/delle nostre estati. Ora/lo tingono di grigiazzurre/nubi le palpebre dell’aria./Tu non ricordi gli archi/di viti e i prati del mare”. Sono istanti capaci di segnare un’esistenza, in un costante alternarsi di presente e passato “perché come un fulmine/senza ragione o colpa/mi ricordò il tuo viso quel giorno/la timidezza increspata negli occhi/non sapevi schiudere parole/non sapevo annaffiare le tue radici/Ora l’orchidea sta sul davanzale/la casa le è cresciuta intorno/sotto il cielo di Roma e di altri”
Ciò che conta è l’istante da cui scaturisce la poesia, un pensiero, un’immagine, un’associazione insolita, persino la quotidianità assume così un altro volto, raccontata attraverso l’uso di metafore e uno sguardo capace sempre di andare al di là della superficie, come in Kitchen “L’alba, la sveglia./Si frange il mattino/sui piatti allineati in dispensa/come i desideri/che vai pettinando”” o in Delfini “Mentre dormi la luna è entrata./Delfini giocano sulle pareti,/guizzi di nervi sotto la pelle./Le palpebre viandanti si arrampicano/sui muri del giorno”. Fino alla Grazia di una giornata d’estate “Casa sul mare/abbandonata/con lampada al tetto/accesa, dimenticata./Luce sull’estate/che non vedi, oltre i muri/chiusi, gli anni avversi,/trascolorati”. E così basta anche solo il foglio bianco di un quaderno per accogliere un viaggio e immaginare “Ti aspetto./Luminoso migri/sul mio quaderno vuoto./Sulla sedia del salotto cerco/il testo a fronte della poesia/straniera che sta sbocciando”. Così davanti al computer sale la rabbia e il desiderio di un altrove “Un’altra sera schiusi al pc./Prove di schiavitù./La ferrovia dismessa manda bagliori/la pioggia è muta. Sale l’odore di terra, un grazie dal pozzo/Cuore, mio cuore/fatti non fummo a questo?/Cos’è questo timore?”. Mentre le fiamme silenziose della città sembrano richiamare Troia e il dolore di tutte le città toccate dalle guerre ma anche una sofferenza interiore, un tedio che a volte non si vede “La città brucia in silenzio./Un tedio greve lacera i pioppi./Ascoltare il contagio/a mietere la ragione. Una preghiera sfuma lenta i contorni della sera/o forse una bestemmia la addormenta”. La pace è continuamente evocata, di fronte a un mondo che appare folle “Ho una corona di spine/intorno al cuore, la pietà che ho perso, la luce/inimitabile che ho sognato. /Muore l’inverno folle, folle è il mondo”. L’io poetico non smette mai di sentirsi parte di un mondo in rovina, fin quasi a sentirsi in colpa per la quiete e i piccoli piaceri del quotidiano “Sono io a consolarmi tra guerre/nucleari, tu vivi del presente, di dirette, del clima della gente./Perdonatemi se qui bevo lieve/al mio tavolo, olio su tela mite. Leniamo la risacca, la risacca.” Una ricerca evidente anche nell’immagine della luce che campeggia in tutta la raccolta, luce accompagnata dal desiderio di purezza, anche se non basta chiedere altre estati “Seguitammo a cercare un lume/querce e castagni, filari di niente/In principio era il sole,/poi venne il tuono –raggi ad echi, senzadio”. Centrale il legame con gli affetti familiari, a partire dall’amore per il proprio bimbo che è superiore a quello cantato dai poeti “Cosa muove questo scempio/in mezzo al cuore?/Tu sei forse l’Amor/dei poeti di ghiaccio/da cattedre di pietra proclamato/che move il sole e l’altre stelle/ed io non seppi. E ogni lingua/che conosco − tutto il greco e il latino – non narrò il prodigio di una tua mano,/né vangeli né lumi di ragione”. Fino al legame con la madre “Non so vederti invecchiare. /Non sto stare vicino al tuo cuore/di bambina soldato. /Non so amare − non ti so amare /col tuo rassegnato stupore/colla forza inflessibile dei giunchi nel vento”.
E se le figure della classicità fanno capolino, appaiono comunque trasfigurate nel quotidiano come nei versi dedicati alla Musa, in un viaggio joyciano tra le strade di una città che somiglia più a Dublino che al Mediterraneo “È mio nonno all’angolo del tavolo/− mai tanto visse come da morto −, è un dio sconosciuto/alla stazione, il somalo nitido/sul fondo del mare, tu e il tuo primo/sguardo, parole da raccontare./l’abisso di Dio e la fiamma del campo,/l’amore pensato, la sedia vuota/il girasole ritorto, il figlio mai nato./Naufragi e colline, questo mi porta,/ascolto e son care”. La stessa città di Napoli con il suo caos richiama le grandi città dell’antichità “Qui dentro è Alessandria d’Egitto,/no, forse è la città nuova,/o forse è Cirene, V secolo d. C./Le vie bruciano, il maggio è d’oro/all’angolo un mendicante canta/la sua libertà di cane felice./Garrire di ragazze”. Né può essere il tempo delle storie ma solo delle preghiere o del silenzio “Mi chiedi una storia./Non trovo gli eroi/e dormono le fate./I boschi raggrinziti/stanno fissi con le radici all’aria,/afasia di cicale”. Ma la poesia di Maria Consiglia è anche l’incantesimo di un’alba, di marzo in cui “Tremano sciolti i papaveri all’aria”, di Montevergine in un equilibrio tra spazio interiore ed esteriore, in cui le due dimensioni sono sempre inscindibili: “Il cielo imbianca attese, /dicembre splende azzurro sul viale./Dovrei tenere quest’acqua/come un cerchio/una luce da dare ai morti/come un lago di pace./Una china buia, il tempo,/non ne parlare./Vedi case ancora”. “Un Mito mai mitizzato – scrive nella postfazione Sergio Daniele Donati -, leggi che divengono esperienza, luoghi in movimento: in altre parole una scrittura che risulta in linee espressive non d’avanguardia, in un continuo a costante sfasamento, anzi, passatemi un meglio calzante francesismo, in un perenne décalage che sposta certo il lettore verso quell’altro (o altrove) che per la poeta è sorgente stessa di luce. E lo fa appellandosi al suo innato dono di scrittura delicata, dono che è, prima ancora che del registro della scrittura medesima, sempre del dominio elettivo ed etico”