Di Floriana Guerriero
T essere le fila delle storie narrate, ricomporre il mosaico fatto di luoghi, personaggi, voci perché acquisti nuova luce. E’ l’obiettivo da cui nascono i due volumi di Franco Festa “La gioventù del commissario Melillo. Avellino 1946-1964” (420 pag. 18 euro) e “La solitudine del commissario Melillo. Avellino 1970 -1985” (710 pagine, 18 euro), Robin edizioni, che ripropongono i sei romanzi dell’amato commissario in una differente veste tipografica: “Delitto al corso. Hanno ucciso il Cavaliere”, “La quinta notte”, “L’ultimo sguardo”, “La verità dell’ombra”, “Il respiro del male”, “Il confine dell’oblio”. Un itinerario nel quale ci accompagna il commissario Melillo nel suo strenuo tentativo di restituire ordine al caos che lo circonda, di cercare sempre di comprendere gli uomini e le donne al di là delle vittime e degli assassini, nella sua ricerca costante di una luce che possa restituire un futuro alla città. “Il commissario Melillo – scrive Festa in “Delitto al corso” – amava la precisione. Lo affascinava la pazienza con la quale l’orologiaio Perusini smontava e rimontava i suoi orologi e le sue penne, la sincronia al millesimo di secondo con la quale i pendoli sparsi qua e là nel piccolissimo negozio cominciavano, tutti insieme, a suonare, la perfezione con la quale la lente e le pinze, inseguivano la molla a spirale nella cassa degli orologi da polso….Melillo non credeva alla casualità, al disordine, al caos. Neppure nei casi che gli erano affidati. Così era per questa storia del cavaliere. ‘Troppa fatalità’ si ripeteva”. Ma sono soprattutto le trasformazioni della città ad emergere dai romanzi di Festa, una città che finisce per piegarsi alla logica del capitale, del guadagno a tutti i costi, per perdere il senso delle relazioni autentiche “Dalla fine della guerra ai primi anni ’60 – ci ricorda l’autore – Avellino è una piccola città di provincia che si sviluppa lungo il consueto percorso, a partire dal centro storico, aggrumato intorno al duomo sulla Collina della Terra e articolato tra strade e luoghi di miseria, poi lungo l’imbuto dello Stretto, traboccante di meravigliosi negozi, fino al Corso….una città che conserva ancora una forte struttura identitaria di piccoli commercianti e di impiegati, di lavoratori autonomi e operai e in cui la vita si sviluppa per strada, nei bar, nei quattro cinema, nelle lunghe passeggiate per il Corso, nello spensierato oziare nella centrale Villa comunale”. Eppure è proprio negli anni ’50 che la città perde la sua identità, nascono i quartieri popolari, viene cancellato il verde, finiscono per essere tombati quei fiumi di cui era ricca, comincia la stagione della speculazione edilizia attraverso un’alleanza tra i vecchi ceti professionali legati alla rendita fondiaria e la nuova borghesia emergente, palazzinari, banchieri, politici. Comincia in quegli anni anche l’abbandono del centro storico con le case in rovina lungo le discese di Sant’Antonio e Rampa Macello e le nuove periferie senza servizi. Persino quella che sembra quiete è “l’immagine di copertina di una febbre nascosta, di una indocile ricerca di novità, di una voglia di trovare nuove strade che producano ricchezza”. Così in “Delitto al corso” è un omicidio nel cuore della città a smascherare le dinamiche che governano la città. “Lui aveva però lo sguardo sporco – scrive Festa – nonostante fosse vestito sempre all’ultima moda e passasse tempo ad aggiustarsi la giacca, a lisciarsi i capelli, a far scivolate i suoi baffi sottili tra le dita uniformi”. Ne “L’ultimo sguardo” è uno dei personaggi della trama a svelare il vero volto del capoluogo “Lei la vede questa piccola città. Sembra tranquilla, per bene, addirittura spenta. Non è così, mi creda. Ci sono regole d’ipocrisia che non si possono violare, passioni che non si possono esprimere. Miserie private, quante ne vuole, ma tutto sparisce, tutto si cancella nel pacchetto di dolci con il nastrino del bar Diana, nei saluti domenicali, alle 12, davanti alla chiesa del Rosario”. Un’identità stravolta, quella della città, che emerge con forza dirompente nei romanzi che compongono il secondo volume come “La verità dell’ombra”, “Il respiro del male” e “Il confine dell’oblio”. Se è vero che un vento nuovo attraversa Avellino negli anni ‘60, come testimoniano il Murale della Pace di De Concilii, il drammatico presepe nella chiesa di San Ciro, l’esperienza della comunità di San Ciro, guidata da don Michele Grella e Pio Falcolini, quel fervore finisce per essere spazzato via dal prevalere degli interessi economici, a partire dallo stravolgimento del nuovo piano regolatore dell’architetto Petrignani. “Specie il Corso, il centro della città – scrive Festa nell’intro – duzione – sarà sfregiato, nella sua cortina di palazzi ottocenteschi, da palazzoni enormi e volgari, senza nessun legame con la storia urbanistica della città. Avellino, in pochi anni, si estende disordinatamente, mentre diventa il centro di un sistema di spesa pubblica, sostenuta dalla Dc”. “La città era inerte, bloccata – leggiamo ne ‘La verità dell’ombra’ – e insieme nervosamente in movimento. Il vecchio e il nuovo si sovrapponevano senza legami, senza logica, nelle strade e nelle teste delle persone. Forse anche nella sua che avvertiva sempre più il peso del tempo passato”. Una città in cui il desiderio di nuovo, di essere al passo con le grandi città, testimoniata da esperienze come quella di Musica Incontro, si intreccia con cancrene che non possono essere curate. Mentre anche ad Avellino arriva la ferocia del terrorismo, e le divisioni sociali si rafforzano. “Per anni due città si confrontano – sono ancora parole dell’autore nel suo tentativo di rileggere i romanzi in un disegno completo – Una colpita lievemente dal sisma o risparmiata per intero, che continua sia pure a fatica la sua vita normale: l’altra, quella del centro storico, che conserverà a lungo i segni della catastrofe e impiegherà più di un decennio per ritornare a far sentire la sua voce, ora sperduta nei campi dei prefabbricati leggeri”. Non è un caso, dunque, che nelle storie facciano la loro comparsa personaggi espressione di quella borghesia senza scrupoli, disposti a tutto pur di arricchirsi, senza alcun vincolo morale. Quello stesso credo dell’arricchi – mento sfrenato di alcuni ceti che ritroviamo anche negli anni Ottanta. Ma non è facile districarsi tra i delitti di questa città, si ha l’impressione di scontrarsi con un muro di gomma, che ogni proprio sforzo di scoperchiare un sistema, una rete di complicità sia vano. Non lo è neppure per il commissario Melillo come appare con forza ne “Il confine dell’oblio” “Era stanco il commissario. Non era solo stanchezza fisica ma qualcosa di più profondo. E nemmeno lui sapeva se fosse solo collegato all’età, ormai così avanzata, al tempo irrimediabilmente trascorso o a un suo stato di precarietà. Non lo sapeva e non voleva saperlo. In questo si sentiva per una volta in perfetta sintonia con la sua città dopo il terremoto: sbandata, deflagrata dentro oltre che fuori”. La stanchezza avvolge i luoghi e i personaggi come il vecchio cinema, di epoca fascista, scosso dal sisma, dove viene ritrovato il corpo di Isaia Sgarbi ne “Il confine dell’oblio”, in cui è facile riconoscere l’Eliseo. “Se non fosse stato per Camillo Marino e Giacomo D’Onofrio, eroi gentili e solitari, di quel cinema si sarebbe persa ogni traccia. I due intellettuali, amanti del grande schermo, avevano continuato testardi con il loro festival neorealistico il Laceno d’oro di cui rivendicavano l’autonomia contro tutti. La città indifferente li aveva confinati in quella sala ormai cadente, senza fondi, con sempre meno spettatori…” Ed è una denuncia forte quella che arriva dai romanzi di Festa che scoperchiano nodi e ferite ancora aperte, a partire dal giro di tangenti negli anni del doposisma, come nella figura dell’onore – vole e dei suoi portaborse invischiati nella ricostruzione, tratteggiati ne “Il confine dell’oblio”. Ma la capacità di Festa è anche quella di consegnarci personaggi indimenticabili, a partire dalle figure femminili, come Lucia, legata al commissario da un sentimento che oscilla tra l’amicizia e l’amore, e Gaetano, un giovane ex poliziotto che ha abbandonato la divisa per rabbia, le uniche persone su cui Melillo può contare, tra i pochi sprazzi di autenticità in un universo in cui nulla è come appare.