Tra filosofia e narrazione, Fiore si interroga sull’esistenza
E’ nel titolo stesso scelto per il romanzo “Nessun titolo” il nichilismo dell’opera del giovane autore irpino Vincenzo Fiore, Nulla die edizioni. “Nessun titolo” è un chiaro richiamo all’anonimato a cui è condannato il protagonista, alla perdita di qualsiasi speranza che pervade la sua esistenza. De Tommasi, di professione medico, non è più lo stesso, tutto gli appare inutile e senza senso, dal suo lavoro alla stessa famiglia, dall’amore per la moglie ai suoi due figli, che sembrano aver ereditato tutte le caratteristiche più negative delle nuove generazioni, superficiali e persino razzisti. L’unico conforto in questi ultimi scampoli di vita è il costante confronto con un misterioso senzatetto, Emanuele, che appare e scompare dalla sua vita, solo lui sembra intuire il senso dei suoi pensieri, saper guardare dentro di lui, solo lui sembra essere al di sopra delle meschinità dell’uomo. Solo il dialogo con quell’uomo sembra riuscire ad elevarlo dalla meschinità della vita, solo con lui può riflettere su Dio, sul significato della sofferenza e la vanità di qualsiasi ideale. Ma quell’uomo esiste veramente? Fiore è bravo a tenere le fila della narrazione fino alla fine, svelando fino alla fine il segreto che nasconde del protagonista e la vera identità del misterioso senzatetto. Ma non è solo la consapevolezza della caducità della vita che lo tormenta, appare presto chiaro che un mistero tormenta la sua esistenza, il senso di colpa che si porta dietro il protagonista è il rimorso per aver scelto di assecondare la logica del denaro, l’ipocrisia borghese “Abbracciamo sotto gli abiti costantemente la nostra vergogna. Non possiamo parlare troppo perché abbiamo paura che il sipario venga scoperto. Noi puntiamo il dito per distogliere dalle nostre manchevolezze, è così che funziona”. Ogni giorno è una messa in scena, una finzione perché tutti credano che nulla è cambiato mentre nulla è più lo stesso. Come sua moglie Natalia, l’idealista di ieri, la donna che credeva nella difesa dei diritti dei deboli, nella libertà e che invece ha finito per rinnegare tutto ciò che era, piegandosi alle leggi di una società che impone abiti e scarpe sempre più belli, il culto dell’apparenza, con tanto di amante. Del resto, De Tommasi ha compreso fin da piccolo che la felicità assoluta non può esistere, che ogni scampolo di gioia si paga a caro prezzo. “Non mi bastano più le sfumature, io voglio un’altra occasione, un foglio bianco con delle matite colorate. Sogno d’essere il demiurgo degli ultimi anni della mia vita, di guardare le mie idee e materializzarle”. Ma De Tommasi comprenderà presto che non siamo più artefici del nostro destino, non c’è altra strada che quella di accettare il proprio destino, un destino che non fa più paura, poichè ciò che resta è solo la noia, la condanna a giorni sempre uguali. Quando capirà che è ancora possibile cercare il riscatto e dunque una sorta di espiazione della propria colpa, sarà ormai troppo tardi.