Sarà il caffè Hope di Avellino ad accogliere venerdì 7 marzo, alle 17.30, il confronto su “Artemisia Gentileschi, l’indomita pittrice”, donna capace di affermarsi in un universo e in una professione considerata a quel tempo esclusivamente maschile. Relazionerà Giovanna Nicodemi, esperta in valorizzazione e conservazione dei beni culturali. A portare i propri saluti Elvira Napoletano di Avellino per il Mondo, Pasquale Luca Nacca di Insieme per Avellino e per l’Irpinia. Modera Gianluca Amatucci. Saranno esposte le opere di Alessia Ausiello.
La fortuna di Artemisia è legata, oltre che alla forza della sua pittura, agli aspetti drammatici e romanzeschi della sua vita, e al suo coraggio nell’affrontarli, che ne hanno fatto quasi naturalmente una eroina femminista ante litteram. Una lettura che rischia di offuscare la forza con cui Artemisia si impone come pittrice, e su generi decisamente lontani da quelli legati alle convenzioni del tempo. Artemisia rilegge nelle sue opere soggetti sacri e storici, impianti monumentali; con una totale padronanza della pittura, e abbracciando completamente la lezione caravaggesca, radicale nella concezione della scena, nel contrasto che descrive le forme e i colori, nella predilezione di un taglio ravvicinato che drammatizza il rapporto con lo spettatore, nell’abbandono di moduli iconografici convenzionali.
Primogenita del pittore Orazio Gentileschi e di Prudenzia Montone, morta di parto quando Artemisia ha solo dodici anni, dimostra un precoce e spiccato talento pittorico che matura nello studio del padre, già esponente di primo piano del caravaggismo romano.
La sua attività presso la bottega del padre termina in seguito al processo avvenuto nel 1612, voluto da Artemisia e dalla famiglia in seguito alla violenza di Agostino Tassi, suo maestro di prospettiva, che al tempo della vicenda era impegnato, insieme a Orazio, alla decorazione di Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma.
Dal processo il Tassi esce praticamente indenne, mentre i Gentileschi devono subire pesanti condanne morali, oltre alla crudezza dei metodi inquisitori del Tribunale, di cui è rimasta esauriente documentazione [1]. Merita ricordare che Artemisia accetta di testimoniare sotto tortura, di provare la sua verginità precedente allo stupro, e viene sottoposta alla sibilla, supplizio progettato per i pittori, che consiste nel fasciare loro le dita delle mani con delle funi fino a farle sanguinare.
Dopo il processo il padre riesce a combinare un matrimonio per la figlia con Pierantonio Stiattesi, pittore fiorentino, che determina il trasferimento a Firenze e una nuova stagione, definitivamente da “solista” per Artemisia. A Firenze nasce la prima figlia e viene accolta, contrariamente al marito, presso l’Accademia delle arti del disegno: è la prima donna a ottenere questo prestigioso riconoscimento. Ottiene importanti commissioni dalle famiglie fiorentine (Medici compresi) e stringe amicizia con Galileo Galilei che nutre per lei grande stima, e con Michelangelo Buonarroti il giovane, il quale le commissiona una tela per celebrare il suo illustre antenato.
Di questo periodo fanno parte la Conversione della Maddalena e la Giuditta con la sua ancella di Palazzo Pitti ed una seconda versione della Giuditta che decapita Oloferne, conservata agli Uffizi.
Nel 1621 va a Genova per un breve periodo, poi torna a Roma come donna indipendente, allontanandosi definitivamente dal marito, e portando con sé la figlia Palmira.
Dopo Roma è a Venezia, e probabilmente vi soggiorna tra il 1627 e il 1630, alla ricerca di nuove commissioni. Successivamente approda a Napoli, e lì rimane definitivamente, se si esclude una breve parentesi inglese a Londra, dove raggiunge il padre per assisterlo fino alla sua morte