Fra meno di un mese, il 26 febbraio, nasce il nuovo Pd. Un parto difficile, un po’ meno lungo di quello naturale, perché il travaglio è iniziato il 25 settembre quando alle elezioni politiche il partito che pretendeva di guidare l’alternativa alla destra rampante misurò la propria incapacità di tessere alleanze, e fu sconfitto. La lezione non servì, perché da quel giorno il Pd, invece di prendere atto dei suoi errori e porvi rimedio, continuò a sbagliare. Sbagliò Enrico Letta a restare alla guida del partito con l’illu – sione di farsi garante della successione (e invece ne è diventato ostaggio), sbagliarono i capicorrente a concordare un rinvio di quattro-cinque mesi per la resa dei conti fra di loro; sbagliarono tutti insieme senza accorgersi che così facendo la nascita del nuovo Pd sarebbe stata festeggiata con un’altra duplice sconfitta elettorale, quella delle regionali in Lombardia e Lazio, due regioni che fanno mezza Italia, che rappresentano il Nord produttivo e il vertice del potere istituzionale, quindi l’Italia intera. Due regioni nelle quali la destra presenta candidati che per la loro storia – Attilio Fontana a Milano, sconfitto dalla pandemia, Francesco Rocca a Roma, illustre sconosciuto con precedenti inquietanti – non sarebbero votabili, come non lo furono tutti i candidati alle precedenti elezioni locali; ma questa volta vinceranno perché l’opposizione non c’è, non partecipa. L’opposizione, tutta, si presenta al voto non solo divisa,marissosa. Si dirà: se è così la colpa è di tutti, non solo del Pd. Vero. Però il Pd è quel segmento dell’opposizione che coltiva ancora la “vocazione maggioritaria” e quindi dovrebbe dimostrare di saperla esercitare; mentre i Cinque Stelle di Giuseppe Conte cercano solo un consenso elettorale pur non sapendo come spenderlo (hanno sempre fatto così, anche quando comandava Grillo) e Azione di Calenda e Renzi vuole solo dimostrare (ai riformisti del Pd e a quelli di Forza Italia) che la vera vocazione maggioritaria è la sua, sapendo che per esercitarla, se ci arriverà, passeranno anni. Così il nuovo Pd – di Stefano Bonaccini? di Elly Schlein? – sarà battezzato dopo una duplice sconfitta, che non è propriamente un esordio incoraggiante. Ma a tutto c’è rimedio, o meglio ci sarebbe purché si abbiano idee chiare. Ed invece no. Il “Manifesto dei valori” varato dopo settimane di dibattito e un’intera giornata di conclave in una riunione di Direzione che è servita solo a decretare il rientro nel partito degli scissionisti di Articolo 1 (un pezzettino della ex sinistra che se n’era andata), non chiarisce nulla, non sceglie fra la linea dei riformisti socialdemocratici e quella degli estremisti nostalgici, che infatti poche ore dopo in Parlamento voteranno contro l’invio di armi all’Ucraina. Così si riparte daccapo, verso una nuova scissione. Ha detto Romano Prodi, il padre dell’Ulivo, l’unico che per due volte ha portato i progressisti alla vittoria elettorale per essere poi disarcionato dai suoi: “Basterebbe buttare giù quattro cose tranquille, dette chiare, e la sinistra resuscita. C’è un’opinione pubblica totalmente disamorata. Se non c’è qualcuno che dice ‘facciamo piazza pulita’, il Pd non si rialza. Auguri al nuovo Pd.
di Guido Bossa