“‘Giancà, c’è andata male’. E’ così che gli direi, dopo 40 anni, se fosse ancora vivo. Abbiamo lottato per costruire una società diversa ma non ce l’abbiamo fatta. I giovani di oggi conoscono i personaggi di ‘Gomorra’ e ‘Mare fuori’ ma non sanno nulla dell’antimafia e di don Peppe Diana”. E’ il giornalista Pietro Perone, caporedattore al Mattino, a raccontare a 40 anni dalla morte la lezione di Giancarlo Siani al Circolo della stampa. Punto di partenza del confronto, moderato da Selene Fioretti, promosso da Cgil, Laika e Libera a 40 anni dalla morte, il volume a lui dedicato “Terra nemica”, che ricostruisce nel dettaglio l’inchiesta condotta dalla squadra di giornalisti del Mattino, colleghi di Giancarlo, per fare luce sulla sua morte. “Le responsabilità sono nostre – spiega Perone – ma anche dei modelli culturali. Una serie come Gomorra ha prodotto danni pari all’incendio di dieci biblioteche. Senza dimenticare l’incapacità della politica di contrapporre modelli positivi a quelli veicolati da media. Nessuno spiega ai giovani che Nisida è ben diversa dal carcere raccontato in Mare Fuori, chi arriva lì vuole solo scappare. Lo stesso libro d’inchiesta di Saviano è stato trasformato in una serie che romanza la realtà”. E ribadisce come “E’ fondamentale ripartire dalla partecipazione per combattere criminalità e corruzione. Tuttavia, dobbiamo fare i conti con la mancanza di quegli spazi di aggregazione rappresentati in passato dai circoli Arci e dai partiti. Oggi sono le parrocchie i principali luoghi in cui i giovani riescono a incontrarsi e stare insieme. Tutto questo, in un tempo in cui la politica si fa attraverso i social. Malgrado ciò, dobbiamo continuare a lottare e non perdere la speranza, convinti che si possa raccontare la realtà partendo dai fatti, senza compromessi, cercando la verità come faceva Giancarlo”.
E sottolinea come “E’ cambiato poco da quando è morto Giancarlo, se i giornalisti devono ancora guardarsi dalle loro Terre Nemiche, come è accaduto a Sigfrido Ranucci. Per Giancarlo le Terre Nemiche erano la camorra e la politica collusa con i clan, oggi ci troviamo di fronte a giornalisti reticenti o sottomessi al potere. Viviamo l’epoca del copia e incolla, c’è sempre meno tempo per le inchieste e approfondimenti e sempre meno giornalisti sono disposti a porsi domande. Si vive la professione in maniera impiegatizia. Ma dire o cercare la verità è pericoloso oggi come ieri. Negli ultimi tempi abbiamo, poi, allentato la guardia pensando che i nuovi mezzi di informazione potessero favorire la libertà d’informazione ma se le notizie non si cercano, la Terra Nemica rischia di prendere il sopravvento”. Ricorda come “A 26 anni, Giancarlo cercava la verità, pensando che il giornalismo potesse essere uno strumento per cambiare la società. Erano decine gli omicidi di cui scriveva ogni giorno ma la sua sfida era quella di non limitarsi a scrivere i fatti, cercava di comprenderli, di scavare per capire le dinamiche da cui scaturivano”. Spiega come all’indomani del suo omicidio “furono i colleghi più giovani di Giancarlo a ribellarsi, quando il Mattino immaginò di dedicare solo un trafiletto al suo omicidio. Ottennero che la sua morte diventasse almeno una notizia di spalla, anche se Giancarlo divenne un semplice cronista, come nel tentativo di sminuirlo. Mentre è stato il primo a fare giornalismo investigativo, tra i suoi appunti ci sono fogli in cui ricostruisce attentamente gli schieramenti dei clan, dai Gionta ai Nuvoletta. Appunti da cui emerge la consapevolezza che i clan di Torre Annunziata erano legati ai Corleonesi di Riina. Dopo l’omicidio di Giancarlo, ci si stupiva che la camorra avesse ucciso un giornalista perchè non era mai capitato prima di allora, solo, poi, si comprese che era stata la mafia ad ucciderlo. Furono anni di silenzi e depistaggi. Si formularono le ipotesi più diverse, dall’omicidio per motivi passionali all’ipotesi che il delitto fosse legato a un giro di clienti illustri di una casa squillo al Vomero, dove un testimone diceva di aver visto lo stesso Giancarlo. Decisivo fu il riferimento a un maglione a colle alto indossato da Giancarlo secondo il testimone, quando invece Siani non aveva nessun maglione di questo tipo nell’armadio”. Ricorda come “quando mi chiamarono a Castellammare, non ebbi alcun dubbio prima di accettare. Mi dissero che nessuno voleva lavorare lì dove aveva lavorato Giancarlo. Decisivi furono, poi, l’arresto di Riina, il pentimento dei boss Alfieri e Galasso con l’arresto di politici illustri, cominciava a franare quel mondo che aveva impedito che la verità venisse alla luce. Fino al primo pentito di Torre del Clan Gionta. Non ci avevo dato troppo rilievo, poi, ebbi un’intuizione e chiedemmo al Procuratore se il pentito aveva fatto riferimento anche al delitto Siani, il sorriso del procuratore fu eloquente, ci bastò per cominciare la nostra battaglia e chiedere allo Stato che questo ragazzo di 26 anni avesse giustizia. Portammo avanti una inchiesta parallela a quella della magistratura sui mandanti del delitto, consultammo le carte processuali e scoprimmo tante verità non dette, come una lettera scritta alla fidanzata Chiara che stava a Milano, nella quale Giancarlo parlava di un libro che aveva ultimato sulla camorra a Torre, rivelava di essere stato minacciato e di avere paura, senza risparmiare giudizi durissimi su alcuni colleghi, Ma nessuno aveva mai interrogato Chiara”.
Confessa di aver aspettato prima di scrivere il libro “Non volevo costruire la mia carriera sulla morte di un collega ma poi mi resi conto che ciascuno raccontava questa storia come voleva, mi capitò di leggere di quei giovani che avevano applaudito, durante la proiezione di Fortapasc, i killer che sparavano a Giancarlo. E mi dissi allora che avevo sbagliato tutto, che dovevo raccontare la sua storia”. Di qui la scelta di scrivere del suo delitto “senza sconti, facendo nomi e cognomi, a partire dai vigliacchi che hanno persino negato di aver scritto articoli con lui, dai giornalisti che lo hanno lasciato solo ai magistrati che non hanno indagato”. E’ Italia D’Acierno, segretaria provinciale Avellino, a porre l’accento sul valore di cui si carica la figura di Siani nel momento difficile che vive la città in cui “esiste una larga fetta di criminalità e disagio sommerso che, poi, in alcuni momenti, improvvisamente viene alla luce. Certamente non siamo un’isola felice. Ecco perchè quest’incontro diventa non solo l’occasione per ricordare Giancarlo ma anche per ribadire l’importanza della libertà d’informazione. Anche oggi è difficile per i giornalisti svolgere il loro lavoro, costretti a fare i conti con pressioni e minacce”. E’ quindi Davide Perrotta di Libera a sottolineare la frattura sociale e culturale che vive Avellino “Lo dimostrano gli spazi di aggregazione inutilizzati, la difficile situazione politica con i continui commissariamenti. Di qui la scelta di Libera di incontrare la gente, di scendere in piazza per riappropriarsi degli spazi. Ma il segnale veramente importante è arrivato dai giovani con un corteo che ha riunito 2000 studenti con l’obiettivo di ‘Disarmare Avellino’. Abbiamo lavorato tanto nelle scuole e abbiamo compreso come ci sia tanta speranza nelle nuove generazioni”. Per ribadire la necessità di “Fare di memoria di Giancarlo per ciò che ha rappresentato. Non è un caso che i primi a ricordarlo siano stati i giovani scesi in piazza per diffondere l’idea di verità e l’impegno di essere giornalista giornalista”.




