“Raptus d’amore, la violenza di genere nel linguaggio giornalistico”. E’ il titolo del confronto in programma il 21 giugno, alle 18.30, nella cornice di Libero Spazio d’arte, in via Partenio. A confrontarsi sul tema le giornaliste Rosaria Carifano, Maria Laura Amendola, Elena Russo. Una riflessione a tutto campo promossa da Arci, Soma e Libero Spa, nell’ambito della Primavera Transfemminista Fest, sul ruolo che riveste il linguaggio nella costruzione di una società patriarcale, per evidenziare come la violenza di genere continui ad essere presente nel linguaggio giornalistico e le parola finiscano per plasmare l’immaginario collettivo.
Come ribadito dal Testo Unico dei doveri del giornalista, la violenza contro le donne, la violenza sessuale, molestie, stalking e cyberstalking, il femminicidio (omicidio di una donna in quanto tale) devono essere raccontati con rispetto verso la vittima e delle differenze di genere. Stesso dicasi riguardo al rischio di omofobia e transfobia.
La vittima non va offesa e stigmatizzata, la gravità del fatto commesso e raccontato non deve essere sminuita. L’autore di reati non va giustificato con attenuanti sottintese come ‘gelosia’, ‘raptus’, ‘depressione’, ‘tempesta emotiva’.
Il giornalismo ha un compito preciso anche nell’ambito della violenza sulle donne: deve limitarsi a raccontare i fatti senza inquinarli trasmettendo giudizi, pregiudizi, valori, vecchie credenze, stereotipi. La scelta delle parole ha infatti un’influenza sulla percezione da parte del pubblico di un crimine: scegliere di scrivere “tragedia” piuttosto che “omicidio” rischia di attenuare le responsabilità del colpevole.
Come emerge dall’Osservatorio Step sulla narrazione della violenza sulle donne da parte dei giornali italiani, ad essere cambiato è il linguaggio. Sebbene perduri la presenza di stereotipi patriarcali nel racconto della violenza di genere, c’è una graduale evoluzione verso una narrazione più consapevole e centrata sulla vittima. Il termine “raptus” – che tende a minimizzare la gravità e la complessità del crimine, distorcendo la percezione delle responsabilità del colpevole – è fortunatamente sempre meno utilizzato. Ma vi si ricorre ancora quando si riportano, negli articoli, alcuni passaggi ricavati dalle arringhe degli avvocati, dalle requisitorie dei pubblici ministeri, o da sentenze dei giudici.
Quando i casi di violenza riguardano bambine o ragazze, permane il problema dei diminutivi e vezzeggiativi come “fidanzatino” o “ragazzino”, che rischiano di suggerire attenuanti legate all’età.