Di Annarita Rafaniello
Lieve soffia l’aura sul mare corusco,
svelando segreti d’alba e d’eterno.
Sole del Sud, rinasci nelle nostre anime.
Mi sorprendo di frequente a riflettere sul destino di tanti figli del Sud che, al compimento della maggiore età, si trovano a “scegliere”, o forse sarebbe più onesto dire a “subire”, la partenza dalla propria terra d’origine. Un esodo silenzioso, ma costante, che si consuma tra valigie colme di speranze e stazioni ferroviarie trasformate, sempre di più, in scenari d’addio piuttosto che di ritorno. Ma quale voce interiore li spinge davvero ad abbandonare il mondo che li ha generati? O forse, più che una scelta, è il lento distacco da un amore che non riesce a trattenerli? Una domanda che resta sospesa, come il fischio di un treno che si allontana nella notte.
È forse il desiderio di evadere da un contesto che, agli occhi di chi vi è cresciuto, appare statico, immobile, quasi impermeabile al cambiamento? Oppure è la sete di nuove esperienze, il bisogno di assaporare l’indipendenza, la libertà, la vita adulta lontano da tutto ciò che è familiare? Non di rado, dietro questa apparente “scelta”, si celano aspettative familiari profonde: madri e padri che, per ragioni economiche, sociali o culturali, hanno dovuto rinunciare ai propri sogni e che ora vedono nei figli un’occasione di riscatto, l’estensione ideale di un cammino che a loro è stato precluso.
C’è anche chi parte con l’illusione, o la convinzione, che altrove, nel mitizzato “Nord”, le opportunità siano più accessibili, le strade verso il successo meno tortuose, le logiche più giuste e meritocratiche. E spesso, il solo fatto di poter dire “studio all’università di Milano”, o “vivo a Firenze”, diventa motivo di vanto, quasi un distintivo sociale da esibire, come se la geografia potesse certificare la qualità di un sogno o la dignità di un percorso.
Eppure, dietro tutto questo, si annida una domanda più profonda, e forse anche più amara: perché un giovane del Sud deve ancora oggi sentire di doversi allontanare dalla propria terra per trovare legittimazione, possibilità, futuro? Perché il Sud, così ricco di storia, cultura, intelligenze brillanti e risorse umane, continua a essere vissuto, spesso da chi vi nasce, come un luogo da lasciare piuttosto che da abitare, difendere e trasformare?
Forse è proprio questo il nodo più dolente: la partenza, troppo spesso, non è l’inizio di un viaggio, ma la rinuncia forzata a ciò che si sarebbe voluto costruire laddove affondano le radici. E se è vero che ogni distacco richiede coraggio, è altrettanto vero che, quando le alternative sono poche o nulle, quella che appare come una libera scelta somiglia più a una necessità mascherata da ambizione.
Proprio nel solco di queste riflessioni si imprime in me un sentimento di mestizia e indignazione, che solleva l’interrogativo sul destino di tanti giovani meridionali che, quasi in silenzio, lasciano la propria terra per inseguire altrove un’idea di prestigio che troppo abitualmente poggia su basi fragili, se non addirittura arbitrarie. Lo fanno convinti, o, peggio, convinti da altri, che le università del Centro e del Nord siano intrinsecamente “migliori”, più solide, più rispettabili. Eppure, ciò che viene loro raccontato ha ben poco a che fare con la realtà.
È giunto il momento di parlare. È giunto il momento di fare chiarezza.
Perché questa narrazione egemonica, in base alla quale studiare “a Milano”, “a Venezia”, “a Pavia” equivale automaticamente a un salto di qualità, si fonda su un sistema di classifiche che, a guardar bene, non dicono nulla di veramente rilevante sulla qualità della formazione, sulla profondità dell’insegnamento, sulla passione con cui viene trasmesso il sapere.
Le cosiddette classifiche, quelle che ogni anno alimentano paragoni sterili fra atenei, sono costruite su parametri che premiano tutto fuorché la sostanza: efficienza amministrativa, accessibilità digitale, numero di studenti stranieri, rapporti internazionali, percentuali occupazionali a sei mesi dalla laurea. Ma la formazione è ben altro. Non si misura in algoritmi, né si riduce a una graduatoria stilata da qualche centro studi. E queste classifiche, lo dico con fermezza, non contano nulla se ciò che interessa davvero è la crescita culturale, etica e intellettuale degli studenti.
Al contrario, vi sono università del Sud che, pur gravemente penalizzate da decenni di sottofinanziamento e da un cronico disinteresse politico, riescono a brillare. L’ Università della Calabria primeggia tra i grandi atenei italiani. Il Politecnico di Bari si piazza stabilmente ai vertici nazionali. L’Università di Palermo, la Federico II di Napoli, la Mediterranea di Reggio Calabria, l’ateneo del Salento: tutte realtà che, con dedizione e resilienza, garantiscono una formazione eccellente, spesso superiore a quella di istituzioni più celebrate e pubblicizzate.
E allora perché questa sistematica svalutazione? Perché il giovane che studia al Nord viene automaticamente percepito come più preparato, più ambizioso, più degno di attenzione? La verità, per quanto scomoda, è che questa retorica alimenta una forma di colonialismo culturale interno, che continua a svuotare il Mezzogiorno delle sue migliori energie e a far credere che il valore sia altrove, mai a casa propria. Ma io non ci sto.
Io credo sia nostro dovere difendere con orgoglio le università del Sud, smascherare l’ipocrisia che le circonda, e affermare con forza che il merito, la serietà, la qualità della didattica non hanno latitudine. Perché, se è vero che ogni giovane ha diritto di partire, è altrettanto vero che nessuno dovrebbe essere costretto a farlo per inseguire un’illusione o, peggio, per sfuggire a un pregiudizio. Le università del Sud non sono “minori”: sono luoghi vivi, spesso eroici, dove il sapere si trasmette ancora come un atto di cura, e non solo di dovere, e si apprende con autenticità. Non hanno bisogno di classifiche per dimostrare il proprio valore: il valore lo incarnano, lo generano, ogni giorno, anche senza finire in prima pagina.
E se oggi diciamo che è tempo di restare, o di tornare, non lo facciamo per spirito localistico, ma perché crediamo in una giustizia culturale che deve finalmente essere detta, pretesa, rivendicata.
La cultura italiana, quella vera, quella che ancora oggi regge l’impianto della nostra identità nazionale, è nata nel Sud. È nei templi dorici di Paestum e di Agrigento che risuona l’eco millenaria della Magna Grecia. È sulle pietre di Matera, scolpite dal tempo e dall’ingegno umano, che si legge la continuità di una civiltà antichissima. È a Napoli, con la sua stratificazione di saperi, lingue, scuole e visioni, che l’Europa intera ha attinto pensiero, arte e filosofia.
Non lo dico perché mi consideri una modesta devota della tradizione classica, ma in quanto figlia consapevole di una formazione umanistica rigorosa, maturata tra i banchi del liceo, dove si apprende che prima di Roma ci fu la Grecia, e che il Sud, da sempre crocevia di culture, ha forgiato identità e narrazioni uniche, un’eredità preziosa e irripetibile che incarna l’anima più profonda e autentica del nostro paese, e che il Nord raramente può vantare (forse troppo assorto a specchiarsi in effimeri riflessi, dimentico del peso concreto e della trama profonda della storia, là dove si cela la firma dell’essere, che non ha bisogno di clamore per lasciare traccia).
E forse è proprio da questa dimenticanza che nasce l’illusione di una supremazia culturale: fragile nella sostanza, rumorosa nella forma, distante anni luce da quella sapienza silenziosa che il Sud, da secoli, custodisce senza clamore. Proprio da questo intreccio storico e culturale emerge una domanda inevitabile: siamo davvero, noi giovani di oggi, orgogliosi di appartenere al Mezzogiorno?
Dovremmo esserlo. E lo saremmo, se solo conoscessimo anche una minima parte della storia che ci scorre nelle vene. Una storia fatta di pensatori, filosofi, giuristi, poeti, scienziati, artisti; di università tra le più antiche d’Europa, di lingue che hanno nutrito la lingua italiana, di gesti che sono diventati cultura.
Non abbiamo nulla da desiderare o rincorrere nei confronti del Nord. Non dobbiamo aspirare a ciò che altri hanno, né misurarci su scale che non ci appartengono. Se proprio vogliamo dirla con eleganza, non siamo noi a dover colmare distanze, ma forse altri a nascondere, dietro l’efficienza ostentata, il silenzioso disagio di un’identità più fragile, meno profonda, meno radicata.
Perché il Sole sotto cui siamo nati, quello che ci ha cullati, nutriti, temprati, non è un Sole qualunque. È il Sole del Sud, e ha la forza di chi ha conosciuto il dolore e la grandezza, la bellezza e la contraddizione. È un Sole che non solo illumina, ma racconta. E chi resta sotto quella luce, chi decide di investire qui il proprio futuro, compie un atto di coraggio ma anche di verità.
E così, solo riconoscendo questo patrimonio, che è patrimonio di civiltà, di memoria, di lingua e di visione, potremo finalmente avere il coraggio di dire, con dignità e con fierezza: sono del Sud.
E lo sono testardamente.
Inequivocabilmente mediterranea,
testardamente partenopea
irriducibilmente irpina.