Dei tre verbi – appassionato, disgustato, annoiato – usati da Roberto Gervaso per rappresentare il suo stato d’animo nei confronti della politica attuale, quello più deleterio ed insidioso per la democrazia è il terzo, annoiato. Perché? Perché il termine annoiare richiama “avere in odio” fino a ritenere che non valga la pena di dedicare altra attenzione alla causa scatenante la sensazione di odiare. Questa mancanza di volontà di compiere qualcosa di costruttivo, trasferita nell’attuale momento di vigilia elettorale, determina l’ulteriore aggravamento della sindrome dell’astensionismo.
Come inutile protesta contro un sistema partitico frammentato come non mai. Il disgusto e la noia verso la politica non costituisce connotazione culturale e comportamentale di chi scrive e di tanti altri, spero nella maggioranza dei casi, che ritengono, invece, urgente una nuova stagione di impegno e di partecipazione per uscire dal tunnel buio della situazione attuale e creare nuove prospettive.
L’insufficienza dell’offerta politica attualmente in campo, è vero, è talmente evidente da aver spinto quasi tutti i partiti a condurre la campagna elettorale ricorrendo a false promesse, impossibili a mantenersi a fronte di un nostro debito pubblico dalle allarmanti proporzioni. Si è tentato affannosamente a cambiare il nome dei partiti, di costituire liste civiche – anche in previsione delle prossime amministrative – si tenta di intercettare l’istanza “anticasta” sempre più crescente. In realtà tutto questo appare manifestamente incapace di ridare significato e nuovo slancio alla politica in quanto si rivela come superficiale marketing politico che crea, come abbiamo ricordato, noia e disgusto.
Che fare allora? Rassegnarci ad accodarci ai sostenitori dell’antipolitica, soffiare dentro le vele dell’antipolitica e consentire ancora l’emergere di una classe politica mediocre o corrotta? Non mi pare la soluzione opportuna e sicuramente non quella che si addice a chi è portatore di una visione alta della politica come servizio al bene comune, come cattolici impegnati da sempre nei percorsi significativi, generosi e adamantini, del cattolicesimo democratico nell’alveo delle associazioni con una storia nel civile e nel sociale nonché in tante lodevoli iniziative della Chiesa locale.
Altra è la strada da intraprendere con urgenza, più faticosa ed irta di pericoli: ricostruire un modello credibile ed efficace di relazione stabile e strutturata tra la società civile e la politica, annullando la profonda distanza che nell’ultimo ventennio si è venuta a creare e che ha prodotto un percepibile e crescente scollamento tra le istituzioni e i cittadini. Solo in forza di questo patto, chiaro e percepibile, assumono finalità apprezzabile le candidature sbandierate da personaggi illustri provenienti dall’humus fecondo della società civile.
Nel delineare questa concreta prospettiva di rinnovamento e di partecipazione non mi sfugge l’amara consapevolezza della insignificanza politica delle organizzazioni cattoliche, nel corso dell’ultimo ventennio, anche se lo straordinario cattolicesimo sociale di Papa Francesco ha innescato scintille nuove di partecipazione attiva e responsabile nel vasto arcipelago dell’associazionismo di ispirazione cristiana
. All’interno di questo considerevole alveo di consenso – è utile e doveroso sottolinearlo – è diffusa la consapevolezza di non «essere più in libera uscita» anche se questa democrazia sociale non è ancora sufficientemente dotata di una strategia politica e programmatica capace di affrontare l’agone politico: le chiese locali, almeno la parte preponderante delle più impegnate nella costruzione delle sollecitazioni postconciliari del Vaticano II, mostrano preoccupazione e consapevolezza di questo deleterio ritardo.
Le grandi sigle dell’associazionismo italiano – dopo i tentativi di Todi uno e due, sono chiamate a mettersi in gioco per una nuova stagione di partecipazione e cambiamento non certo per costruire nuovi partiti, ma per attrezzarsi opportunamente – come è avvenuto nei momenti più esultanti della democrazia repubblicana- per offrire buone prassi ed uomini, capaci e responsabili, per progettare concretamente il bene comune che non va solo strumentalmente declinato, ma quotidianamente costruito sulla frontiera delle tante emergenze, materiali ed immateriali, ancora presenti.
di Gerardo Salvatore edito dal Quotidiano del Sud