Di Diego Infante
Di fronte alla notizia falsa (bello sarebbe stato il contrario, una battuta pubblicata da Lercio.it) di uno studente che si rifiuta di completare il suo percorso universitario in ossequio alla professione di ignoranza socratica, c’è poco da ridere, e molto da riflettere.
La filosofia come regola di vita, infatti, è stata sacrificata sull’altare del nozionismo accademico, e la possibilità di rimanere coerenti al dettato socratico è andata a farsi benedire.
Certo il pensiero greco mai fu riducibile alla sola esperienza; ma conformemente alle riflessioni di Pierre Hadot una valenza pratica non era affatto sconosciuta; anzi.
La frattura mythos-logos da cui ebbe origine la filosofia greca («parto esclusivo del genio ellenico», secondo alcuni), fu lo stigma che la rese fragile ed esposta alle strumentalizzazioni politico-religiose.
Con l’editto dell’imperatore Giustiniano (529 d.C) trovò il suo capolinea: il paganesimo dovette ammainare le proprie insegne di tolleranza e pluralismo a vantaggio di un monoteismo che dogmatico lo era per definizione.
Fu così che a un’Accademia ne seguì un’altra, molto diversa, questa volta sotto gli auspici del nuovo credo.
E la professione di ignoranza che consegnò Socrate all’immortalità non poté più essere praticata, essendo ridotta a mera formuletta mnemonica da recitare dinanzi a questo nuovo e assurdo tribunale giudicante.
Lo sconquasso fu talmente grande che sembrò replicare quello della scissione tra mythos e logos, soggetto e oggetto, natura e cultura.
D’ora in avanti «magnifiche sorti e progressive» imporanno il culto della performance a scapito della coerenza e della libertà.
Fu così che una misera liturgia laica si appropriò indebitamente di un pensiero ridotto a nozione da giudicare, non più regola di vita, ma vessillo stinto di una decadenza passata “dalla potenza all’atto”.
E Socrate finì per morire una seconda volta.