di don Vitaliano Della Sala
Quest’anno come “Presepe” vi propongo è un’opera d’arte. Ovviamente non mia, ma del maestro Piergiuseppe Pesce. Sono già pronto alle critiche che accetterò sperando di imparare qualcosa da esse. Sono pronto anche agli insulti, come è avvenuto lo scorso Natale – solo al sito della Curia di Avellino sono arrivate 26.000 mail di insulti! – che mi faranno godere, perché vorrà dire che tanti stupidi si sono ancora una volta arrabbiati!
Infondo Natale è la provocazione che Dio fa all’umanità, il suo più grande paradosso: ci mette di fronte a Dio stesso, il Creatore, che si fa bambino, debole e per giunta povero, che nasce in una stalla da una coppia di poveracci. Un Dio che ci scandalizza perché mentre noi ci ostiniamo a volerlo vedere e invocare come l’Onnipotente, lui ci disobbedisce, disobbedisce all’idea, tutta umana, di Dio: all’idea troppo fredda e razionale che i filosofi e anche tanti teologi si sono fatta di lui; disobbedisce anche ad alcune pagine della Bibbia che lo descrivono come l’invincibile Dio della guerra e degli eserciti; disobbedisce, forse, anche a se stesso e, caparbiamente continua a nascere, testardamente si incarna nella storia reale, quotidiana e concreta, tra le pieghe e negli scarti della Storia, quella decisa dai potenti e dai violenti.
So che la famiglia Simpson, con i difetti e le fragilità dei suoi membri, non è la Santa Famiglia di Gesù, come però non lo è quella dei presepi “tradizionali”, con i vestiti del ’600/’700 addosso, per non parlare dei vari personaggi che nei secoli si sono aggiunti a Maria e Giuseppe: dal cacciatore all’oste, da Jannik Sinner a Cristiano Malgioglio!
Infondo il presepe è l’interpretazione dell’evento di Betlemme di cui, ovviamente, non abbiamo foto, solo uno scarno racconto che è già l’interpretazione di un evangelista.
Allora dovremmo rileggere il racconto dei Vangeli sulla nascita di Gesù, senza vedere sullo sfondo l’immagine tradizionale e rassicurante del presepe di sughero e cartapesta a cui siamo fin troppo abituati, e accorgerci che Gesù non nasce né in chiesa, né a Natale, ma in un giorno qualunque, in un posto insignificante, da gente che non conta niente.
Nessuno se ne accorse! In quel racconto ci leggeremo che di fronte alla mangiatoia di Betlemme si può arrivare soltanto in due modi: o come Erode -Hitler – metafora di ogni nefandezza, del male disumano – per sopprimere l’innocente, o come Maria, Giuseppe e i pastori poveri con il Dio povero. Non esistono vie di mezzo.
Invece, da duemila anni, troppe volte, proprio noi cristiani, tentiamo vie traverse, senza fare con chiarezza la nostra scelta. È vero che non esprimiamo il rifiuto di Erode, ma è altrettanto vero che abbiamo addolcito, smussato la provocazione, lo “scandalo” di quel racconto.
Abbiamo tentato una conciliazione impossibile tra il “bambino deposto nella mangiatoia” e il nostro egoismo benpensante.
Se ci pensate bene, dove mangiano gli animali è un posto strano per far nascere un bambino e per di più figlio di Dio; ma proprio perché così inconsueto è anche un segno inconfondibile. Come ai pastori, anche a noi Dio dà dei segni per poter riconoscere facilmente Gesù che viene.
E, come la mangiatoia di Betlemme, si tratta sempre di segni strani, provocatori, ma inconfondibili, fosse anche un comune skateboard.
Noi invece, anziché cercare il segno inconfondibile della presenza di Dio nella Storia, nella nostra storia, lo abbiamo nascosto sotto la festa che abbiamo creato attorno al Natale, una festa di luci e di carillons, di regali e di abbuffate, di elemosine di circostanza, di sentimentalismi sdolcinati, di prediche fervorose, di affari. E abbiamo sottratto Natale al povero Cristo e ai tanti, troppi, povericristi.
Che il Bambino, figlio di straccioni, sia anche il figlio di Dio urta contro la nostra sensibilità benpensante e contro la nostra troppo unilaterale idea di Dio.
In fondo, è più comodo considerarci a “immagine e somiglianza” di un dio potente che del Dio Straccione, e forse proprio per questo facciamo tanta fatica a vedere Dio nel povero, nel migrante, nell’emarginato, nel diverso, nell’escluso, nel bambino violentato, nella donna stuprate e uccisa.
Senza ipocrisia dovremmo ammettere che ci manca il coraggio di restituire Natale a Gesù Cristo e ai poveri. A quei poveri che non sanno più o non sanno ancora che Natale appartiene a loro.
Dietro i personaggi del presepe c’è il volto delle donne maltrattate, degli omosessuali perseguitati, dei giovani senza futuro, dei migranti non accolti, delle vittime della “guerra mondiale a pezzi”, dei lavoratori umiliati, dei morti di oblio, di tutti gli invisibili che non contano, che non hanno un domani.
Ma ci sono anche migliaia di piccoli mondi che assaporano un principio: il principio della costruzione di un mondo nuovo e buono, un mondo dove ci sia posto per tutti i mondi, il mondo che ci fa intravedere il “Bambino deposto nella mangiatoia”.
E allora le statuine del Presepe prendono vita e diventano metafora di quel pezzo di umanità che vuole realizzare il sogno Dio: dal piccolo, dall’insignificante, lui realizza grandi cose per e con noi.
Ma incarnano anche l’incubo che proviene dal male che è in noi e che produce i guasti immani che già troppe volte hanno funestato la Storia e sfigurato il volto dell’umanità. Sta a noi partorire l’aborto di un bambino-Hitler o, come mi auguro, il Figlio di Dio che si fa Bambino!
Sembra di risentire Gesù: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12)