di Antonio Emanuele Piedimonte.
Vasco Pratolini la definirà “la notte dell’apocalisse”, ma oggi, a cento anni di distanza, sono in pochi a sapere ciò che accadde davvero. Nonostante le strade e le scuole intitolate alle vittime, infatti, l’oblio sembra aver preso il sopravvento sulla memoria. Un altro pezzo di storia smarrita nel declino culturale e civico di questi uggiosi, inquietanti tempi, in quella sorta di “amnesia retrograda” collettiva i cui danni furono ben sintetizzati da Luis Sepúlveda: «Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro».
Semplicemente doveroso, dunque, segnalare l’ultima fatica letteraria di un giornalista e saggista, Stefano Bisi, che ha puntato i riflettori su una vicenda ormai circoscritta agli studi di qualche docente di Storia contemporanea, dedicandogli un agile volume il cui titolo è tratto dalle parole incise su una lapide: “Le dittature serrano i cuori” (editrice Betti/Atena 1899, 12 euro).
Il libro ripercorre la storia dell’eccidio partendo dal primo caduto, il 26enne Giovanni Becciolini, che fu rapito, seviziato, massacrato e infine esposto al pubblico orrore. La sua colpa? Essere un massone, un socialista, un pacifista, un amico dei fratelli Rosselli e di Ernesto Rossi, insieme ai quali realizzava un giornale clandestino antifascista. Dopo di lui – in quella stessa lunga notte in cui le squadracce braccavano i massoni casa per casa –moriranno anche un brillante avvocato irpino (di Montecalvo), Gustavo Console, e un noto imprenditore ed ex deputato socialista, il bolognese Gaetano Pilati. Ma procediamo con ordine.
MASSONI E FASCISTI
Per ricostruire quella che fu una vera e propria “caccia al massone” non avrebbe potuto esserci studioso più adatto di Bisi, per molti anni alla guida del Goi (Grande Oriente d’Italia), l’associazione esoterico-iniziatica più nota e più numerosa, e già autore di testi sullo stesso tema (le iniziative antimassoniche), come “Massofobia” e “Palazzo Giustiniani”. Il reportage prende le mosse dagli eventi che hanno portato alle violenze che sconvolsero la Toscana e inorridirono il Paese, cominciando dall’astio mostrato da Mussolini verso i liberi-muratori, risentimento che sembra sia nato dalla mancata adesione all’organizzazione (lo ha scritto una storica negli anni Settanta, non si trovano però i documenti ufficiali che si pensa perduti o più probabilmente distrutti di proposito). Di certo le logge italiane avevano accolto più di un fascista di alto rango, come Italo Balbo, Emilio De Bono e Roberto Farinacci (poi espulso per indegnità), perlopiù dalla Gran Loggia d’Italia di piazza del Gesù, i cui vertici in quegli anni mostrarono simpatia per il nuovo movimento creato dall’ex socialista Mussolini.
Va anche detto che in quegli anni la presenza di massoni era attestata in tutti i settori della società, specie nelle professioni (medici, avvocati, docenti) e dunque anche nel Parlamento, dove si contavano ben 192 deputati e 65 senatori affiliati alla massoneria, divisi nei vari schieramenti (lo ha ben documentato Luca Irwin Fragale nel suo “La Massoneria nel Parlamento”).
Pienamente consapevole di ciò che lo circonda, a Montecitorio e nel Paese, Mussolini ha paura e reagisce a suo modo: decide spazzar via tutto. Parafrasando un’espressione che userà durante l’improvvida (ugualmente fallimentare) impresa bellica: cercherà di “spezzare le reni” ai massoni italiani.
LA MENTALITÀ DEMOCRATICA
Corre il 1921 quando, nel corso del primo congresso del Pnf, viene approvata (per acclamazione) la norma di “incompatibilità” tra fascismo e massoneria. Interessanti le motivazioni, che Bisi ha rinvenuto nel documento “Circolare numero 4” inviato a tutte le federazioni affinché diano «chiarimenti e istruzioni per la lotta contro la massoneria». Eccone un passo: «La massoneria, per il suo programma internazionale, pacifista, umanitario, è nefasta alle idealità e all’educazionale nazionale (…) La massoneria costituisce in Italia l’unica organizzazione concreta di quella mentalità democratica che è al nostro partito e alla nostra idea di nazione nefasta ed irriducibilmente ostile». Dunque va combattuta la “nefasta” mentalità democratica. Nella stessa nota, firmata dal segretario generale del partito, si annuncia pure l’imminente progetto di legge che sarà presentato dallo stesso Mussolini e approvato il 19 maggio del 1925 dalla Camera (289 favorevoli e 4 contrari) e in seguito dal Senato (208 sì, 6 no, 21 astenuti).
LA DIFESA DI GRAMSCI
È una legge liberticida ma sono pochissimi ad avere il coraggio di protestare, dai banchi del parlamento si alza un intellettuale sardo, è uno dei fondatori del partito comunista italiano, si chiama Antonio Gramsci: «…chi è contro la massoneria è contro il liberalismo, è contro la tradizione politica della borghesia italiana», dice. Ha compreso il tentativo di intimidire la borghesia, ma presumendo che lo scenario sia quello politico e democratico ipotizza un facile compromesso, Mussolini lo interrompe subito: «I fascisti hanno bruciato le logge dei massoni prima di fare la legge, quindi non c’è bisogno di accomodamenti…». Un lapalissiano epitaffio che esalta i camerati e fa venire i brividi a tutti gli altri.
Bisi non lo scrive ma forse è giusto ricordarlo: sin dalla sua nascita, nel Settecento, la massoneria è finita più volte finita nel mirino, si pensi solo alle scomuniche di vari Papi e alle altre centinaia di durissimi documenti prodotti dalla Chiesa cattolica (peraltro ancora validi) o agli ugualmente drastici editti reali emessi dai Borbone che, come è noto, si abbatteranno anche sul più famoso dei venerabili: il gran maestro Raimondo di Sangro principe di Sansevero. E però nella seconda decade del Novecento si credeva che quei tempi di oscurità e di tirannie fossero ormai lontani. Un errore di valutazione. Apparentemente solo uggioso, il cielo sull’Italia era ormai divenuto quello denso e nero delle peggiori tempeste.
“LA MASSONERIA DEVE ESSERE DISTRUTTA CON OGNI MEZZO”
Il capo del Goi, il gran maestro Torrigiani capisce che la situazione sta precipitando. Prima della marcia su Roma aveva mostrato simpatia per il socialista che voleva rivoluzionare l’Italia, ora sa che i rischi sono diventati pericoli, sa che le dittature eliminano chi ama la libertà. Il 18 febbraio 1925 in un documento inviato a tutti i venerabili spiega che non bisogna «consentire a nessuno di fare pubblica opposizione al fascismo…». Cerca di evitare che qualsiasi parola o gesto possa costituire un pretesto per nuove violenze dopo i pestaggi, i saccheggi e i roghi delle logge. Cautele che non basteranno ad evitare il peggio.
È trascorso poco più di un anno dal delitto Matteotti e dall’Aventino, il clima è terribile e Mussolini esplicito: «I massoni che sono in sono in sonno (non più attivi, ndr) potrebbero risvegliarsi. Eliminandoli si è sicuri che dormiranno per sempre», spiega ai suoi. L’obiettivo dunque sono tutti i “fratelli”, pure quelli che non partecipano ai rituali ma restano comunque fedeli ai principi: fraternità, giustizia, tolleranza, solidarietà, rispetto degli altri, libertà di pensiero. Per maggiore chiarezza, il 26 settembre il periodico «Battaglie fasciste» pubblica un proclama del direttorio del Fascio: «Da oggi non deve essere data tregua alla massoneria ed ai massoni. La devastazione delle logge si è risolta in una ridicola sciocchezza. Bisogna colpire i massoni nelle loro persone, nei loro beni, nei loro interessi. […] La parola d’ordine è questa: lotta ad oltranza, senza riguardo, con ogni mezzo».
Sul numero successivo, il 3 ottobre, il direttore del giornale (membro del direttorio) rincara la dose: «La massoneria deve essere distrutta ed i massoni non hanno diritto di cittadinanza in Italia. (…) Tutti i mezzi sono buoni; dal manganello alla revolverata, dalla rottura dei vetri al fuoco purificatore».
L’EX PICCHIATORE PREFETTO AD AVELLINO
La Toscana, terra di massoni fieri e coraggiosi, è nell’occhio del ciclone. I sempre volenterosi sgherri del duce seguono con fin troppo entusiasmo le indicazioni di partito. Il capo della squadraccia peggiore di tutte è un certo Tamburini, che può vantare diverse denunce e condanne per vari reati (anche ai danni di camerati), tra gli altri: triplice tentato omicidio, rapina, furto, violenza a pubblico ufficiale, truffa, aggressione (fece picchiare il cassiere del fascio fiorentino dopo aver sottratto 3000 lire dalla cassa sociale), ma ha evitato la galera sia perché “confidente” della Questura sia perché fascista. Nel ‘23 era stato fatto console della 92ª legione della Milizia, la tristemente nota “Francesco Ferrucci”, i cui picchiatori, con lui, potevano essere assoldati da chiunque a pagamento. Tuttavia l’eccessiva predisposizione alla brutalità spingerà il partito a spedirlo in Libia per qualche tempo. Al rientro in Italia è subito nominato prefetto, lo sarà anche ad Avellino, esattamente dal 1936 al 1939. Dopo la caduta del fascismo, poi, è capo della polizia della Repubblica sociale, e in questa veste ordina alle Prefetture di accelerare l’invio di ebrei nei campi di stermino. Ma facciamo un passo indietro.
LA MATTANZA
La sera del 3 ottobre la squadraccia piomba nella casa dell’anziano gran maestro Napoleone Bandinelli, lo vogliono portar via per ottenere da lui l’elenco di altri “fratelli” da cercare. Lui si oppone, aiutato dal “fratello” Becciolini (segretario di loggia) che era con lui, il quale nel tentativo di difendere il suo venerabile affronta l’impari colluttazione. Parte un colpo sparato da uno degli assalitori che uccide, involontariamente, un altro componente della banda. La fuga sui tetti dura poco, il 26enne – marito e padre di un bambino piccolo – è catturato e portato via. Lo torturano per ore e poi lo lasciano moribondo per strada, Becciolini esala l’ultimo respiro in ospedale e i fascisti andranno a picchiare pure il medico, colpevole di aver tentato di salvargli la vita. Ma è solo l’inizio. Scrive Gaetano Salvemini: «I fasci fiorentini iniziarono una caccia all’uomo contro i massoni che durò sino al 5 ottobre; dando luogo all’impresa più atroce tutte le azioni criminose compiute dagli squadristi in quell’anno».
Lo stesso Salvemini, come puntualmente riporta Bisi, darà diversi dettagli di quell’ignobile impresa: «Le strade furono sgomberate; i caffè chiusi, i teatri invasi, le rappresentazioni sospese. Gli studi di tredici avvocati e di un ragioniere, una sartoria e sette botteghe furono messi a sacco nel centro della città, i mobili gettati nelle strade e dati al fuoco: dalle colline intorno a Firenze si vedevano levarsi colonne di fumo. Questo a poca distanza dalla prefettura, dalla questura (…) I tutori dell’ordine brillarono sempre per la loro assenza». E tra le dimore bruciate c’è anche quella gran maestro del Goi, il già ricordato Torrigiani (avvocato e decorato di guerra), che fino a quel 1925, autentico annus horribilis per la massoneria e per il Paese, era stato alla guida di una comunione che contava oltre ventimila aderenti.
IL DEPUTATO BOLOGNESE E L’AVVOCATO AVELLINESE
La lunga notte è una scia di sangue. Intorno alle 22 le camice nere vanno a cercare l’avvocato Gustavo Console, un irpino volitivo e battagliero che si era trasferito a Firenze dopo la guerra ed era stato corrispondente del quotidiano “l’Avanti”. Anche lui è nella lista dei bersagli perché libero-muratore e perché impegnato con la rivista clandestina. È a cena con alcuni “fratelli”, forse un’agape massonica, quando la squadraccia bussa al cancello del suo villino. La presenza di molte persone li trattiene dal loro intento e scaricano la rabbia sparando dei colpi in aria. Console chiama in prefettura e in questura, arrivano due agenti che lo tranquillizzano: i fascisti non torneranno. Invece tornano e gli sparano, nella stanza dei suoi bambini (che per tempo aveva fatto allontanare dalla casa) dove lo trova la moglie, ormai senza vita, in mezzo ai due lettini dei bimbi. Oggi sulla casa c’è una lapide che recita: «Gustavo Console avvocato e uomo politico ardente difensore della libertà». La città di Firenze gli ha dedicato una strada.
A mezzanotte un’altra banda armata fa irruzione in un’altra dimora, quella dell’imprenditore ed ex deputato socialista Gaetano Pilati, molto conosciuto e stimato, anche lui massone e antifascista. Gli sparano mentre è ancora nel suo letto, lui si protende per evitare che colpiscano anche la moglie e il figlio, muore dopo alcuni giorni di agonia. Prima di spirare dirà: «Gli austriaci mi mutilarono, gli italiani mi hanno ucciso». Nonostante le minacce la vedova riconosce e testimonia contro gli assassini del marito, ma alla fine del processo, celebrato nel 1927 a Chieti, tutti e sette gli imputati saranno assolti. Strade e istituti scolastici ne ricordano il sacrificio in Toscana e in Emilia.
Le altre vittime di quella notte le ha rivelate proprio la coraggiosa vedova di Pilati – Amedea Landi, alla cui memoria nel 1992 è stata assegnata la medaglia d’oro al valor civile – che nella camera mortuaria dove c’era il corpo del marito vide altri quattro morti, tutti uccisi da revolverate. Si seppe solo che erano quattro operai, vittime dei raid, ma rimarranno senza nome.
PRATOLINI E SALVEMINI
L’eco delle violenze e dell’indignazione da esse generata giunge presto a Roma, a cominciare dalle proteste dell’arcivescovo Mistrangelo. Il duce convoca il Gran Consiglio e s’inalbera gridando che «s’è rischiato di fare di Pilati un secondo Matteotti». Il prefetto è messo a riposo, il questore trasferito, ordina tre inchieste di facciata e spedisce l’ex massone Balbo a dare una sistemata al partito fiorentino. A Tamburini tocca una lunga vacanza in Libia.
Tempo dopo, quei tristi giorni saranno rievocati da Vasco Pratolini in alcune intense pagine del suo “Cronache di poveri amanti”. Anche Gaetano Salvemini scriverà un dettagliato resoconto sottolineando l’assenza delle forze dell’ordine prima e della giustizia poi. Dei 10 inquisiti per l’assassinio di Becciolini, 8 furono assolti, e i due condannati non risposero di omicidio ma solo di ferimento. Tristemente sarcastico il commento dello storico: «Non era stato ucciso, ma ferito gravemente; poi era morto di suo».
In chiusura del suo reportage, Stefano Bisi ricorda l’epitaffio sulla tomba di Becciolini: «Ucciso nell’adempimento di un alto dovere di fraterna solidarietà in un triste ritorno di oscura barbarie (…) ammonisce i viventi che le dittature serrano i cuori ad ogni nobile sentimento e che solo nella libertà e la serenità e la gioia del vivere la certezza nel divenire delle genti».