Si dice che le sentenze non si commentano. Ma nessuno può fermare l’indignazione di chi, in quella tragica notte sotto il ponte di Acqualonga, a Monteforte, ha dovuto piangere i propri cari. Risuonano nella mente quelle grida di dolore, la disperazione negli occhi di quaranta vittime innocenti, bambini, donne e uomini, affidate alla irresponsabilità di una impresa di trasporto che aveva messo in circolazione un bus malridotto, trasformatosi in bara volata giù dal precipizio. Quella tragica notte noi c’eravamo. Nel buio di quei cespugli che avevano raccolto brandelli di corpi umani ci assalì lo sgomento. Attimi di terrore consegnati ai primi soccorritori, alle ambulanze che con le loro sirene squarciavano le tenebre di quella che apparve subito come un’apocalisse. Neanche la fede riuscì a compiere il miracolo, quella fede che aveva portato i devoti nei luoghi della santità di padre Pio. Nessuna fatalità, solo la certezza della precarietà di un bus che avrebbe potuto cedere da un momento all’altro. Per anni si è cercata la verità, sono state realizzate ricostruzioni sulle cause dell’incidente, si sono registrate perizie contrapposte. Quella strage degli innocenti è diventata l’emblema di un Paese nel quale la sicurezza è all’origine di tante morti, come quelle causate dai ponti collabenti, dalle strade insicure, dalle opere pubbliche senza la dovuta manutenzione. Anche se diverse sono le cause del ponte crollato a Genova, eguale è la responsabilità di chi avrebbe dovuto evitare che ciò accadesse. Bastavano controlli, manutenzione, potenziamento delle strutture deboli. Ma nel Paese del tutto e subito, dell’improvvisazione, della speculazione e degli affari senza regole, tutto può accadere. Anche che l’emozione e la commozione dell’ora passino in secondo piano. Della strage di Acqualonga per ora resta un monumento tra i ceri che illuminano i cespugli bagnati dal sangue di vittime innocenti; il ricordo di quelle bare in fila nella scuola di Monteforte; le lacrime di rabbia e di dolore che ieri hanno infranto il silenzio di un’aula di giustizia.
di Gianni Festa