Diventa l’occasione per ribadire il valore della libertà e il no deciso a qualsiasi forma di populismo il confronto con Walter Veltroni alla festa del libro di Sant’Andrea di Conza. Lo scrittore e politico si è raccontato, intervistato da Erberto Petoia, a partire dai suoi libri in cui forte è il messaggio contro ogni forma di fascismo, da “La scelta” a “La condanna”.
Una libertà che siamo chiamati a difendere ogni giorno, a partire dall’uso consapevole dei socia: “E’ importante – ha spiegato ai giovani – che non siate seguaci ma che ragioniate con la vostra testa quando usate i social, che siate cittadini consapevoli, che non seguiate la massa”.
L’appello a fidarsi del giornalismo, malgrado il pericolo delle fake news “Oggi resta l’unico strumento di mediazione per arrivare alla veridicità dei fatti”. E spiega come “il populismo è inconciliabile con l’idea di democrazia. Le masse facilmente passano dall’acclamazione alla condanna, una condanna che avviene senza processo. E’ quanto è successo con Mussolini e si è ripetuto più volte nella storia del paese”.
Ricorda come lo spettro dell’uomo forte ritorni con forza sullo scenario politico “anche a causa del malcontento e della paura delle masse”. Una riflessione che parte dall’ultimo libro “La condanna” dove Veltroni si interroga sulla figura di Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli, esponente del regime, linciato in modo selvaggio dalla folla nel settembre 1944.
A prendere forma la storia di una condanna controversa, brutale, a partire dalle pulsioni e dalla rabbia che agitano la folla di quel settembre 1944 , nella Roma liberata dal fascismo e dall’occupazione nazista. Pulsioni che richiamano gli strepiti e i livori che si muovono, velenosi, nelle relazioni di oggi, nella comunicazione, sui social.
“Questo libro – spiega – nasce dalla lettura di un saggio di Gabriele Ranzato, tra i primi a tirare fuori questa storia di solitudine dall’oblio in cui è caduta. Non c’è neppure una targa che ricorda che in un palazzo di giustizia un uomo è stato linciato. Il libro è, in fondo, un apologo sulla professione del giornalismo. Racconto la storia di un giovane giornalista che arriva con entusiasmo in una redazione e trova un contesto di grande cinismo e disincanto. Tra le eccezioni il caporedattore della sezione cultura Fabiani, he ccapisce presto che nel giovane c’è la luce e gli affida di scrivere la storia di Carretta. Una storia raccontata attraverso lo sguardo di questo ragazzo che fa il giornalista, che cerca, un rabdomante che insegue la verità delle cose. La realtà non è codificabile ma può essere raccontata. Invece oggi stiamo perdendo il racconto, siamo investiti di frammenti, pezzetti di verità sganciati dal prima e dal dopo, che hanno l’effetto di un terremoto di cui il giorno dopo nessuno si ricorderà. Abbiamo perso la visione d’insieme che offre la narrazione. Poichè è chiaro che i social sono fatti per frammentare. Di qui il tentativo di raccontare la storia di Carretta, dal punto di vista di ragazzo di 24 anni che guarda la realtà senza paraocchi”.
Ricorda come Carretta sia certamente una figura controversa sulla quale non è facile esprimere un giudizio: “E’ stato direttore del carcere di regina Coeli, non si registrano racconti che parlino di lui come di un aguzzino, anche se può darsi che abbia chiuso gli occhi su orrori consumati nel carcere. Ma non possiamo dimenticare che in quel clima una parola sbagliata poteva significare morire. Tuttavia, nel momento in cui dovrà decidere da che parte stare, farà delle scelte coraggiose, tanto da aiutare a scappare due futuri presidenti, Guseppe Saragat e Sandro Pertini. Su di lui sospendo il giudizio. Entra in aula come testimone d’accusa ma comincia ad essere picchiato, neppure lui sa perchè, per essere infine linciato dalla folla. Lo stesso Visconti sceglie di non mostrare il linciaggio, ritenendo non fosse opportuno nell’Italia dilaniata del tempo in cui tutto veniva strumentalizzato in chiave revisionista”.
Per ribadire che “bisogna aver il coraggio di togliere il velo pur sapendo che non c’è revisionismo che tenga. Il fascismo ha tolto la libertà agli italiani, ha sostenuto le leggi razziali, la persecuzione degli ebrei, ha consentito l’occupazione e nessuno lo potrà mai mettere sullo stesso piano dell’antifascismo”.
Spiega come “viviamo oggi in un tempo di rancore, di violenza, della negazione del diritto ad esistere per chi non è come noi. Le generazioni sono oggi attraversate da una forma di disagio e ansia terribili, viviamo in una società incattivita, in cui è il linguaggio stesso è diventato violento. Si dimentica che la meraviglia della vita è la diversità. Sui social non si fa altro che insultarsi a vicenda e questi insulti possono fare più o meno male ma se un ragazzino si vede messo alla gogna, inseguito ovunque dai bulli digitali, può fare fatica a resistere. Esiste un Tribunale permanente che emana delle sentenze di demonizzazione, alle quali si fa fatica a sfuggire”
Non nasconde le sue preoccupazioni Veltroni: “Penso che il mondo abbia imboccato una strada pericolosa, sia sul piano delle conseguenze della rivoluzione digitale che del discorso pubblico. Di qui la necessità di accendere un segnale di allarme, per ribadire il valore della libertà, la necessità di essere giudicati secondo regole di democrazia”. Sottolinea che “il populismo è sempre imbarbarimento della vita pubblica, inganno ai danni del popolo, un negare il principio dell’armonia delle diversità. Non possiamo dimenticare che la libertà nella storia umana è un’eccezione non la regola. Noi siamo gli unici che possiamo essere custodi della libertà. Ma se siamo followers, se riduciamo la nostra vita ad essere seguaci, se continuiamo a tenere la testa china sulla schermo, finiremo solo per accrescere questa forma di imbarbarimento, poichè non ci sono dubbi che la società digitale reclama un sistema di carattere autoritario”