Di Monia Gaita
Il lume della follia – Oèdipus edizioni – del poeta e pittore napoletano Prisco De Vivo, costituisce il secondo pilastro di una trilogia o fenomenologia della sofferenza avviata nel 2009 con il libro “Ad Auschwitz” e destinata a concludersi l’anno prossimo con l’uscita di “Corpus doloris”. Le liriche, improntate a un simbolismo in contrappunto di matrice russa, affrontano il travagliato tema della pazzia, annodandolo a un’esperienza rammaricante e angosciosa per l’autore: l’internamento in manicomio dello zio Gaetano. “Abbraccia questi stracci – leggiamo a p.18 – venera queste scarpe/ questo cappello di vagabondo/ lascia cadere 30 centesimi/ nelle rughe del tuo immenso manicomio”. E ancora a p.21 “Nella buia stazione: fiori di stracci./ Un copertino giallo/ copre una donna ulcerata/ un piccolo corpo di cisti e verruche./ Le mie ossa s’incollano alla ringhiera”, e a p.22 “Cacciare fuori l’altro di me?/ O fermarsi solo allo scambio?” Ecco che il reale con tutto il suo pallore angustiante e sciagurato, si imprime perentorio sulla lastra fotografica di giorni privi di mitezza, scossi da un patimento soverchiante che ne riveste a mo’ di condanna, procedere e materia.
Un’opera concepita come un testamento spirituale in un drammatico dialogo con un’umanità chiusa, braccata da ombre cupe e sottoposta all’implacabile fuoco di fila degli affanni. Prende sempre più consistenza la voce del vuoto, quasi un legame archetipico con ciò che l’umanità ha di debole, di precipizio e limitato. “Nelle fredde mattine – dice il poeta a p.25 – cresce in me/ un immenso canto caduto”. A p.28 “ed io/ non voglio più pensare/ al rosa del policlinico/ alle pinzette dell’elettrochoc/ alle tre catene di trecce/ che impedivano la mia nascita”. Prisco De Vivo dispiega, in una grammatica ermetica, un sapiente ordito testuale dove la verticalità metrico-stilistica e lo spazio bianco della pagina, connotano e foraggiano la costante e irriducibile tematica della solitudine interiore condita di un sovrasenso di spiritualità. “Come codardo cane – p.32– (non riesco a sfregiarmi la bocca)/ a svuotarla da un’infinita inutilità”. La sezione finale ospita un ciuffo di composizioni dedicate a Van Gogh, Nietzsche, Kafka, Rimbaud e Céline, quasi a voler porre sul podio il sacro vincolo con la filosofia e l’altra primogenita sorgente creativa, la pittura, i cui territori Prisco De Vivo abbraccia da anni con ispirata fecondità. L’autore vuole instaurare una parentela tra le arti dallo stipite comune e condiviso: la ricerca di un’uscita e di una via di fuga. Nella tersa prefazione, Alfonso Guida precisa: “Non è un elogio della follia, ma un voler guardare più a fondo nel vortice, dove presenze infere si illuminano a vicenda e non tutto resta avvolto nell’assoluto del buio”. Dunque, malgrado la disperazione e la fatalità della rovina contro cui ogni resistenza appare vana, svetta sulla follia la forza della parola. La sintassi dei lessemi diventa sintassi dello spirito che ambisce a redimersi e a rivendicare la libertà tramite il raffinato affresco della scrittura. In un impressionismo oracolare, sensoriale e memoriale insieme, incubato nelle pene del quotidiano, il poeta lascia i recinti del privato, mobilitando una riflessione che ci coinvolge tutti. C’è una duplicità di livelli di lettura: da un lato la pazzia, vista come incomunicabilità e infermità, dall’altro la presa di coscienza, l’estrovertito raccontare che strappa al libro l’etichetta di lamentevole autobiografismo. La poesia è immessa su una carreggiata di vicende da partecipare dove ogni riferimento familiare delinea e concentra una rivelazione del dolore cui nessuno può dichiararsi estraneo.