di Rosa Bianco
Ieri sera alla Tenuta Ippocrate di Montefredane un evento che, più che manifestazione culturale, è apparso come un kairòs: un tempo opportuno, denso di senso, in cui parola, natura e sapore si sono fusi in un’esperienza di rivelazione. “Poetar di…vin”, terzo incontro della rassegna “Letture, Natura e Sapori in Festa!”, ha proposto non un semplice incontro artistico-letterario, ma una meditazione condivisa sull’essere, sull’ascolto, sul nutrimento inteso come gesto interiore.
Una straripante partecipazione di pubblico ha testimoniato quanto il bisogno di autenticità e bellezza sia ancora vivo e pulsante nella collettività: decine e decine di persone hanno scelto di esserci, non solo come spettatori, ma come parte viva e consapevole di un’esperienza, che ha voluto riconnettere l’arte alla vita. Questo afflusso, tutt’altro che casuale, ha restituito senso al concetto stesso di comunità culturale.
La serata è stata aperta da Agostina Spagnuolo, figura liminale tra scienza e poesia, il cui discorso ha incarnato un’etica del logos, un sapere che non divide, ma riconnette. Attraverso la descrizione delle virtù del vino, la biologa, scrittrice e tu professoressa Spagnuolo ha delineato un’epistemologia del vino, che è divenuto segno e simbolo: il suo è stato un atto culturale carico di sapere e di cura.
La poesia, cuore pulsante della serata, ha preso voce in cinque autori – Saveria Settembrino, Gaetano Calabrese, Agostina Spagnuolo, Monia Gaita e Gianni Venafro – che non si sono limitati a “recitare”, ma hanno abitato il verso. Le loro letture hanno aperto varchi nel quotidiano, reintroducendo l’alterità dello stupore nella coscienza di chi ascoltava. In un’epoca dominata dalla comunicazione immediata, la parola poetica è apparsa come gesto di resistenza ontologica: una pausa necessaria, un ritorno alla densità del significato.
La performance di Mena Matarazzo ha richiamato i grandi autori della nostra letteratura sul tema del vino, testimoniando come la tradizione non sia un deposito inerte, ma un organismo vivente, capace di dialogare con il presente. La sua voce ha reso vibranti quei testi, riconsegnandoli all’oralità originaria del pensiero poetico.
Il suono, poi, non è stato semplice accompagnamento: le note del Maestro Mayumi Ueda – sotto la sapiente guida del Maestro Nadia Testa – hanno costruito uno spazio altro, un’aura sonora che ha permesso al tempo di distendersi, alla parola di espandersi, al silenzio di parlare.
La pittura del Maestro Sabino Matta ha agito come un’ermeneutica del paesaggio: non illustrazione, ma interrogazione visiva della realtà. In un dialogo muto ma eloquente con la poesia e la natura, le sue opere hanno suggerito che il vedere, come il pensare, può essere un atto di presenza.
Infine, il buffet a cura dello chef Aldo Basile ha dato forma gustativa a quella filosofia del benessere che la Tenuta Ippocrate promuove da sempre: un’etica del cibo che rifugge tanto l’eccesso quanto la negazione, e sceglie la via della misura, della stagionalità, dell’armonia tra corpo e spirito.
“Poetar di…vin” ha così mostrato che la bellezza, quando non è consumo ma incontro, può ancora agire come forza trasformatrice. In un mondo che ha fatto della velocità la sua divinità, questo evento ha suggerito una diversa ontologia: quella della lentezza, dell’ascolto, della cura.
Non abbiamo assistito a una semplice serata culturale. Abbiamo partecipato a un rito collettivo: un brindisi all’essere, un elogio del limite, un inno al ritorno dell’essenziale. La Tenuta Ippocrate si è confermata luogo privilegiato di sintesi tra cultura, paesaggio e cura: un’utopia realizzata, in cui il verso incontra davvero il gusto.
In un tempo che corre, questa serata ha camminato. E ha insegnato – con grazia – a farlo anche a noi.