Di Annarita Rafaniello
Non capirà mai nessuno
quanto amore ci mettevo
anche solo per guardarti negli occhi.
Erri De Luca
Cosa significa amare davvero? Quando si può dire di aver amato veramente, senza misura, senza paura? Che valore conserva un amore promesso, se poi si dilegua nell’assenza? Può dirsi amore ciò che non ha saputo restare?
Quando si pronuncia il nome dell’Amore, è inevitabile che tra i primi si levi quello di Dante Alighieri, come un canto eterno scolpito nell’anima stessa della Poesia. La vita del Sommo Poeta, padre venerato della nostra Letteratura, fu in sé un atto d’amore sublime e assoluto, consacrato alla sua musa ispiratrice: Beatrice, donna angelo e guida celeste.
Sin dagli albori della sua esistenza, l’animo di Dante fu pervaso da un sentimento profondo e totalizzante, sebbene platonico, per colei che egli conobbe – come narra nella Vita Nova, l’opera a lei devotamente dedicata – all’età tenerissima di nove anni. In tale prosimetro, il poeta ripercorre con intensità d’affetto e trepida commozione le tappe dell’amoroso cammino: dal primo incontro al saluto salvifico, dal sogno premonitore e intriso di sangue ai prodigi che presagiscono la dipartita dell’amata, fino a giungere, nel capitolo trentuno, al voto solenne di non parlar più di questa benedetta, se non quando potrà lodarla in modo più degno, dicendo di lei cosa che non fu detta mai di alcuna, quando, beata, contemplerà il volto di Colui che è benedetto in eterno.
Una promessa mantenuta, questa, perché la lauda di Beatrice non si arresta dinanzi alla soglia della morte – evento puramente terreno – né si estingue con la chiusa dell’opera: Beatrice, trasfigurata in luce, sarà la guida che condurrà Dante attraverso le sfere celesti del Paradiso.
La lauda, in Dante, affonda le sue radici nei temi e nei modi propri del Dolce Stilnovo; di conseguenza, la donna – come si legge in Tanto gentile e tanto onesta pare – si configura quale artefice di effetti miracolosi su chiunque abbia la ventura di contemplarne l’incedere angelicato. Induce al silenzio e all’umiltà, infonde dolcezza e soavità nell’anima, elevando gli spiriti alla nobiltà superiore. Non si può, a tal proposito, non rammentare Guido Guinizzelli, padre del movimento stilnovista, che in Io voglio del ver la mia donna laudare celebra una donna ch’abbassa orgoglio, dona salute e a cui null’om si può appressare che sia vile. Né si può dimenticare Guido Cavalcanti, sodale di Dante e suo compagno d’armi a Campaldino, che nei suoi versi loda colei che che fa tremare di charitate l’aria, generando ineffabili sentimenti, espressi in amorosi sospiri. Si manifesta, dunque, l’essenza della donna angelo: apportatrice di virtù, dispensatrice di bellezza spirituale, capace di elevare non solo gli uomini, ma ogni essere che la circondi.
In Donne che avete intelletto d’amore, Dante si rivolge espressamente alle donne nobili d’animo, onorate e illuminate dalla sorte di poter accompagnare colei che è fonte di grazia: queste, persino nell’atto di ascoltarla lodata dalla voce del poeta, si nutrono della sua ineffabile gentilezza. In tale canzone mirabile, Dante inscena un dialogo trascendente tra un angelo del cielo, desideroso di condurre la Madonna nel luogo a lei più degno, e la Pietà, personificata, che implora di trattenerla ancora sulla terra. Si canta così una donna dal volto di perla e dallo sguardo infiammato da spiriti d’amore: privo di lei, il poeta stesso confesserebbe di non poter sopravvivere, pronto a discendere persino negli abissi infernali.
Beatrice, invero, condivide con le donne angelo della tradizione stilnovista l’ineffabile bellezza, l’umile portamento, la virtù che si fa luce, la capacità sovrumana di diffondere intorno a sé meraviglia e salute. Eppure, in Dante, il processo di spiritualizzazione della figura femminile giunge al suo compimento estremo: ella si identifica interamente con la creatura divina, superando il confine che separa l’umano dal regno eterno della letizia e della carità. Beatrice non appare soltanto simile a un angelo: è creatura angelica; non rappresenta un paragone, ma incarna un’essenza trascesa, ormai divina, trasfigurata e trasfigurante per chi la contempla.
Nel canto dantesco, assai più che in Cavalcanti o in Guinizzelli, l’amore si spoglia della sua fisionomia umana, abbandona il rituale tutto terreno del corteggiamento, rinnega il dolore del rifiuto e si sublima in pura contemplazione, in preghiera estatica, in liberazione dall’esilio del corpo.
Come un’eco remota e insieme attualissima, lo stesso anelito a valicare i confini della materia si ritrova nell’amore che unì Marc Chagall e Bella Rosenfeld. È l’estasi di un sogno: un uomo cammina leggero nel mondo, mentre tiene per mano una donna che, lieve, si libra nell’aria. Con lei, lentamente, anche lui si distacca dal suolo, trascinato da un sentimento che infrange le leggi del peso e del tempo. Si tratta di un intreccio mirabile di realtà e visione, dove il tangibile si dissolve nel simbolico, e il confine tra materia e spirito viene valicato da un vincolo d’amore impalpabile, eterno, splendente come un astro errante e profondo come il silenzio tra le stelle.
Il loro incontro non fu frutto del caso, ma epifania d’arte e di destino: in un solo sguardo si celava l’annuncio di una vita condivisa e di una poetica inscindibile. Da quel momento, esistenza e creazione si fusero in un unico respiro. Nel loro linguaggio visivo e sentimentale vive una forma unica d’espressione: un’armonia palpitante di radici e memorie, di fede e temperamento, dove ogni pennellata diviene racconto d’identità e d’incanto.
Se, nell’amore tra Chagall e Bella, tutto si traduceva in sospensione e stupore, nell’unione tra Oriana Fallaci e Alexandros Panagulis l’amore stesso si muta in battaglia e destino, ardendo di una fiamma che né il tempo né la morte poterono spegnere.
Alekos e mia madre erano le due creature della mia vita, scriverà la giornalista fiorentina. Nel giro di poco tempo li perse entrambi: il patriota ribelle rimase vittima di un misterioso incidente stradale nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 1976; la madre, malata da tempo, si spense circa otto mesi dopo. Peggiorò improvvisamente il giorno in cui Alekos morì. Ne rimase straziata perché lo amava moltissimo: tanto quanto lui amava lei. Infatti la chiamava Mamma, e Mamma Tosca: sapendo quanto ciò le facesse piacere. Quel giorno la mamma si mise a letto e, praticamente, non si rialzò più fino al giorno in cui morì. Poco prima di morire, il giorno prima, mi disse: “Vado da Alekos”.
L’amore che legò Oriana Fallaci al poeta e rivoluzionario greco fu di quelli che il tempo non consuma: un sentimento assoluto, forse irripetibile, scolpito nell’eternità. Per la scrittrice, egli non fu soltanto un compagno: Panagulis rappresentò l’incarnazione stessa dell’Amore, quello definitivo, l’unico capace di travolgere e segnare per sempre.
Uomo d’ingegno fulgido, d’animo indomito e spirito ardente, Panagulis univa alla sua nobile statura morale il coraggio di chi sfida la tirannide senza tremore. La loro unione fu ben più che un semplice intreccio di corpi e cuori: fu sodalizio profondo, complicità esistenziale e ideale. Insieme vissero stagioni di quieta dolcezza, ma anche tempeste, condividendo la fierezza della ribellione, la sete di giustizia, e la lotta incessante contro l’oppressione dei Colonnelli. Un amore, il loro, che fu al tempo stesso rifugio e battaglia, passione e missione, poesia e fuoco.
E infine, volgendo lo sguardo agli amori del presente, sorge spontanea la domanda: possono, essi, reggere il confronto con gli affetti di un tempo? È lecito accostare gli ardori fuggevoli dei nostri giorni ai legami incrollabili e assoluti che hanno attraversato i secoli? Gli amori d’un tempo, forgiati nel silenzio della lontananza, nutriti dal sacrificio, resi eterni dalla parola e dal gesto, sembrano appartenere a una dimensione altra, ove il sentimento si faceva destino, e l’unione epica. Oggi, nell’era dell’immediato e dell’effimero, l’amore troppo spesso si consuma prima ancora di compiersi. eppure, chi può dire se tra le pieghe del quotidiano non si nasconda ancora quel fuoco sacro, capace di elevarsi oltre il tempo, come accadde ai grandi amanti del passato?
L’amore è un sentiero impervio, poiché rappresenta una delle rare forze capaci di incrinare la corazza dell’essere, quell’involucro sottile e resistente che l’anima forgia per difendersi dal mondo. Eppure, è proprio in quella frattura che si apre la possibilità del vero incontro. È uno dei pochi spazi in cui possiamo sospendere il dominio della logica, per abbandonarci a una verità che trascende il pensiero. L’amore espande la nostra esperienza del mondo, elevandoci e al contempo scavando in noi profondità inaspettate. Sì, è un cammino impervio. Ma ogni passo nel suo abisso è un passo verso l’infinito.
Nella mia, seppur breve, esistenza ho amato profondamente. Dell’amore donato, la mia coscienza non serberà mai ombra di rimorso, poiché è sempre sgorgato da me con autenticità e sincerità. Ho amato mia madre ancor prima di venire al mondo, e nessuna morte, nessuna perdita, può eguagliare quella di una madre. Perché quando una madre muore, si spegne anche un’essenza di noi, un frammento che non potrà mai essere sanato, un vuoto che nulla e nessuno potrà mai colmare. Non importa che il cordone ombelicale sia stato reciso: il legame resta, invisibile ma eterno. In me lei dimora, come linfa che non si estingue. Non vi fu distacco, ma trasfigurazione: sei divenuta sussurro d’anima, soffio d’amore che non conosce fine.
Non mi è concesso pretendere di cogliere nella sua interezza il mistero dell’amore. Non so se esso nasca come un fiore che sboccia dall’alba di un dono eterno, o se germogli, lentamente, come seme sotto la crosta dura del tempo. Ciò che so è che amare è essere accolti come naufraghi sulla riva di un’anima amica; è udire, nel silenzio più fitto, un “mi sei mancata” che vibra come un richiamo antico nelle stanze più segrete dell’essere. Amare è appartenere con lucida consapevolezza alle proprie scelte, senza mai incatenarsi al desiderio dell’altro, senza mai svestirsi della propria nativa verità. Non si riconosce l’amore nei doni che il vento disperde né nei gesti che il tempo scolora, ma nella presenza che sa restare, nella parola che non tradisce, nella sincerità che prima ancora di toccare l’altro, riconosce se stessa. Amare è custodire la propria essenza come un fuoco sacro, ed esporsi, nudi e intatti, alla luce della verità, là dove l’essere finalmente si abbandona senza timore.