di Michele Vespasiano
«QUESTA TERRA NON SMETTE DI SPERARE»
Questa frase, incisa come un prezioso cammeo sulla retrocopertina dell’ultimo numero di Nuovo Meridionalismo, racchiude in sole sei parole un intero mondo di pensiero. Sono parole di Floriana Guerriero, giornalista e intellettuale di profonda sensibilità, e valgono come un elzeviro per la verità che custodiscono: l’Irpinia è una terra martire e al tempo stesso ostinatamente viva, incatenata a un destino di attesa, di resurrezione sempre rimandata dopo stagioni fatte di lunghi patimenti.
Oggi questa crisi appare silenziosa, addirittura impalpabile, ma al tempo stesso inesorabilmente implacabilmente drammatica; segnata dal lento e costante spopolamento, dalla fuga inarrestabile dei giovani (il futuro che sembra dissolversi in un magma cosmico) e dalla dolorosa rinuncia alle radici culturali e sociali da cui questa terra ha tratto finora la sua identità.
Gli studiosi, sociologi e antropologi tra tutti, hanno cercato di interpretare questo fenomeno con neologismi come “inverno demografico”, una definizione che tenta di dare forma a una realtà altrimenti difficile da misurare, ma che rischia di suonare come un eufemismo rispetto all’entità del dramma.
Di recente, i vescovi del Sud hanno provato a leggere questa stessa realtà attraverso un’altra immagine, ancor più drammatica e collettiva: «la mezzanotte del Mezzogiorno». Un sillogismo che allarga lo sguardo e l’allarme a tutto ciò che la decrescita comporta: non solo assenza di nuovi nati, ma perdita di servizi essenziali, smarrimento di identità, erosione del tessuto comunitario.
In questo scenario, la sintetica espressione di Floriana Guerriero diventa un invito corale a ripensare il futuro dell’Irpinia.
La speranza non è un semplice sentimento, ma una chiamata all’azione. Dipenderà, infatti, da quanto sapremo impegnarci nella costruzione di politiche lungimiranti che uniscano investimenti nella sanità, nell’istruzione, nell’economia e nel welfare, che riescano a contrastare la fuga dei giovani, a valorizzare le tradizioni locali e a rigenerare un tessuto comunitario ormai lacerato.
Perché nascere in un paese dove non si nasce più non è solo un dato statistico, bensì il “the end” di un luogo dell’anima, di una storia e di una memoria condivisa, di una possibilità mai veramente negata.
Eppure, in quelle sei parole di Floriana s’intravede in controluce un tenace filo di speranza (forse non rassegnata, forse ostinata), che chiede di essere tradotta in visione, in progetto, in cura collettiva.
Perché l’Irpinia, come tutto il Sud, non smette davvero di sperare, ma, al contrario, aspetta solo che quella speranza diventi, finalmente, futuro.
La risposta a questa attesa, però, non può risiedere nell’inerzia, né può dipendere unicamente da un intervento esterno. La speranza, per fiorire, chiede di essere tradotta in cura collettiva e visione pragmatica.
Innanzitutto non si può parlare di futuro se si assiste al continuo smantellamento di sanità e istruzione. Trasformare l’attesa significa esigere il mantenimento dei presidi essenziali (scuole vive e servizi sanitari funzionanti) che sono il metro di misura della dignità di una comunità. In secondo luogo, la fuga dei giovani si contrasta creando nicchie operose; dobbiamo valorizzare il potenziale unico del territorio, ovvero investire non solo nel meritevole settore turistico ma principalmente nell’agroalimentare di qualità, nell’artigianato evoluto. E, soprattutto, occorre cogliere l’opportunità del lavoro da remoto, lottando, però, per una capillare connettività a banda larga.
Infine, ma non ultima, occorre una riappropriazione civica. La chiamata all’azione è un imperativo che impone di partecipare, unirsi ai comitati, sostenere le amministrazioni che mostrano lungimiranza. Solo attraverso la ricucitura del tessuto comunitario, attraverso la cura del vicino e del proprio borgo, l’Irpinia può smettere di essere terra martire e riscoprirsi laboratorio di resurrezione.
La speranza ha bisogno di mani che la piantino, non solo di occhi che la contemplino!



