“Siete già stanchi o ve la sentite di affrontarmi?”. Marco D’Amore torna a Giffoni e, in Sala Verde, incontra i ragazzi del workshop +18. Parla di Gomorra e di come quella serie gli abbia “completamente stravolto la vita”. Parla di Caracas e rievoca anche film meno recenti. Soprattutto, rispondendo alle curiosità dei giffoner, parla del ruolo dell’attore, dello sceneggiatore, del regista, ma anche della condizione in cui versa il cinema in Italia. Per lui, tra gli appalusi della sala, il Giffoni Award.
È la poliedricità di D’Amore a stimolare i ragazzi, la sua capacità di passare dal teatro al cinema e alla tv, ma anche di svolgere il ruolo di attore, regista e sceneggiatore. “Il teatro e il cinema sono completamente diversi. Cambia tutto – spiega – Credo che una delle cose più complesse per un artista è comprendere la propria natura. Cioè non solo fare i conti con sé stesso, con i propri talenti e le proprie miserie, ma comprendere come innescare una marcia per cui quello che sente di poter fare trova sfogo. Io non mi sono mai sentito un attore, e lo dico nel rispetto di chi si eccita pensando ai ruoli che vorrebbe recitare. Io – confessa – sono sempre stato molto più acceso dai temi e della storia. Quando ho capito questo, ho capito che dovevo mettermi al servizio di altri per raccontare storie. Questa è la mia natura: dormo poco, lavoro tantissimo. Credo di aver compreso abbastanza presto come funziona la mia natura”. D’Amore evidenzia anche l’importanza dello sbaglio: “Non c’è niente di più proficuo che sbagliare”. Rievocando la sua esperienza, da diciottenne, nella compagnia di Toni Servillo, spiega come il periodo di prova che precede la messa in scena di uno spettacolo “non è altro che la messa in discussione di quello che fai”. E ancora: “Quello che è utile è l’errore, l’inciampo, perché ti fa vedere che ci sono altre strade e altre possibilità”.
L’attore, regista e sceneggiatore casertano parla di Gomorra: “Mi ha completamente stravolto la vita sotto tanti punti di vista, mi ha offerto molte possibilità e soprattutto la capacità di osare. Poi quello che ne consegue nella vita sono cose imprevedibili. A oggi – sottolinea – è il progetto più importane a cui ho preso parte perché la nostra serie è andata in 200 Paesi del mondo. Ed è bellissimo avere la dimensione delle reazioni dal mondo”. Rispetto al contesto in cui è ambientata, Scampia, evidenzia come in Gomorra, a differenza che in altre serie, “alle nostre spalle c’è sempre la realtà. I quartieri che vedete sono così, e così sono le strade e la dimensione di emarginazione”. E, precisa: “A dispetto di questo, nonostante i racconti che si fanno, siamo sempre stati accolti forse con fin troppo amore rispetto a quello che siamo riusciti a restituire, con generosità, con fiducia”. Ed è proprio il legame forte con quella realtà che lo porta a tagliar corto sulla tragedia causata dal crollo di un ballatoio alla Vela Celeste di Scampia: “Preferisco far calare su questa tragedia, di cui ancora si aspettano gli esiti, un silenzio dignitoso, perché ho lì troppe persone molto care a me, tra cui il bambino che ha fatto il protagonista de L’immortale e che per me è come un figlio acquisito, che è proprio della Vela Celeste e che stava là”. D’Amore è chiaro: “È annunciata da anni, lo sanno tutti. Quindi, oggi che tutti ne parlano, che si fanno portatori di solidarietà e di vicinanza, ecco, in questo momento io mi taccio”.
Non manca, infine, una considerazione sulla condizione del cinema in Italia: “Questo è un Paese che non va al cinema, non ha un’azienda cinema, che è stato da sempre esportatore di bellezza e cultura senza avere un sostegno. Grido evviva per il successo di Inside Out 2, però dico anche che ci sono grandi film in Italia e non si sa neanche che sono usciti”.
Caiazzo: Carmine di Mare fuori? Era arrivato il momento di separarci. Il sogno è tornare a teatro
Un cerchio che si è aperto cinque anni fa proprio a Giffoni e che a Giffoni si chiude perché se ne riapra uno nuovo. E’ la traiettoria di una carriera che Massimiliano Caiazzo, amatissimo Carmine della serie “Mare fuori”, descrive dal palco della Sala Truffaut ricevendo il Giffoni Award di fronte ad una platea festante, in visibilio per quello che resta uno dei personaggi che più di tutti hanno conquistato il cuore dei ragazzi.
Un personaggio che non rivedremo nella quinta serie della fortunatissima serie Rai. Il rischio era di rimanerne imprigionato e di questo Caiazzo ne è consapevole. Un personaggio però che il giovane attore ha molto amato. Con il quale condivide “quel bisogno di essere protetto e di proteggere le persone che amo – aggiunge – Anche io sono così, tendo a proteggere anche i miei personaggi”. Ma ci sono cose in cui Carmine differisce molto da Caiazzo: “I personaggi – aggiunge l’attore – sono molto spesso il sogno di noi stessi. E Carmine è molto più coraggioso di me nelle scelte che fa. Ed è molto meno permaloso di me”.
La consapevolezza, anche un po’ sofferta di cui Caiazzo parla, è quella di una parabola che si chiude, di un percorso arrivato al termine: “Un personaggio – dice – per quanto possa essere importante in una storia, non sempre è la storia. Nel caso di Carmine, sicuramente c’è stato un arco nel quale l’esigenza narrativa l’ha portato ad abbracciare il suo sogno”. Realizzato il sogno, è giusto che Carmine esca di scena come d’altronde accadrà nella prossima stagione. In cui Carmine non ci sarà.
Il distacco da un personaggio è quasi una lacerazione. Cosa diresti oggi a Carmine? Caiazzo non ha dubbi: “Gli direi bravo – dice tradendo un po’ di emozione – dandogli una pacca sulle spalle, come se la stessi dando a me. Perché ha creduto fino in fondo al suo sogno. E alla fine riesce a realizzarlo. Oggi Carmine ha saputo costruirsi una struttura interiore solida grazie alla quale può vivere serenamente la sua vita”. L’affezione di Massimiliano per Carmine è totale e lo spiega bene proprio quando sta per congedarsi da questo personaggio: “E’ arrivato a tutti – dice – soprattutto il suo desiderio di portare avanti il suo sogno, questa speranza viscerale nei confronti della vita. Ho dato tutto quello che potevo per farlo, lacrime, sangue, sudore. Spero che possa accadere qualcosa di simile anche per altri personaggi che dovrò interpretare”.
L’emozione è la traccia da seguire nell’approccio ad un personaggio. “Ci sono state alcune scene – spiega Massimiliano Caiazzo – quella dell’ospedale o quella della spiaggia, per le quali ho pianto già leggendo la sceneggiatura perché era viva già in scrittura la sua voglia di speranza, una irrefrenabile positività nonostante il contesto da cui proveniva. Sono partito da lì e nel tempo ho cercato di non appiattirlo mai questo personaggio”. E poi la scena più difficile. Massimiliano lo racconta e un po’ la voce gli si incrina perché confessa che quello è stato un momento di svolta della sua esperienza di attore: “C’era questo mobile di legno – ha detto – che dovevo colpire. Ma non ce la facevo perché non riuscivo a bucare la bolla di dolore che provava Carmine in quel momento. Allora la regista mi ha preso da parte. Io mi sono lasciato andare e quel mobile che non doveva rompersi si è rotto perché ho trovato dentro di me la chiave della scena. Da quel giorno ho sentito che qualcosa nella mia esperienza d’attore era cambiata”. Poi c’è il divertimento di stare sul set: “La scena più divertente – dice – quella con la macchina cabrio. Hanno anche commesso l’errore di farmela guidare. Mi sono divertito da matti”.
Interpretare presuppone conoscenza. Ed è per questo che il cast di Mare fuori, all’inizio della lavorazione della seconda stagione, ha fatto visita al carcere di Nisida: “Si percepiva – racconta Caiazzo – la differenza nell’aria che respiravi oltrepassato il cancello. Vedevi questi occhi dolci che delle volte si perdevano e questa sensazione è stata la cosa che ho tenuto di più a portare nell’interpretazione di Carmine”.
Parliamo di finzione, certo. Ma quanto il carcere di Mare fuori assomigli alla realtà? “Bisognerebbe chiedere agli sceneggiatori – dice Caiazzo – la cosa che ho sentito è che tutto è partito da un laboratorio di scrittura tenuto anni fa in carcere dagli sceneggiatori. Quindi alcune storie arriverebbero da quell’esperienza di dieci anni fa. Ma non saprei dire se è vera questa cosa oppure no”.
Quello dell’attore è un percorso e Caiazzo se dovesse trovare un aggettivo per descrivere come si sente oggi, risponde senza esitazioni: agitato e fortunato. E poi il rapporto con la popolarità, come si gestisce? “All’iinizio – dice – ho avuto bisogno di un supporto psicologico perché normalmente amavo ritagliarmi il mio spazio di libertà. Oggi continuo a farlo. Cammino per le strade di Roma, ascolto musica, ballo. Poi ho iniziato a provare gratitudine per tutto questo e ne avverto anche la responsabilità. Sono consapevole che tutto questo potrebbe anche finire da un momento all’altro”. Ciò che non si esaurirà mai è l’urgenza di esprimersi. Lo spiega bene Caiazzo: “Non avrei fatto altro e non farò altro nella mia vita oltre l’attore. Anche se il successo dovesse finire. Il mio desiderio, la mia priorità sarà sempre la libertà di espressione” che è la sua modalità di interpretare il ruolo, il mestiere dell’attore. La sua cifra stilistica è la curiosità: “E’ qualcosa – aggiunge – di imprescindibile. Quella cosa che mi porta ad andare sempre avanti, sempre oltre. Quella cosa per la quale mi dicono che io sono un tormentato. Ed in fondo è vero”.
Ci sono i progetti futuri – la serie Disney+ Uonderboys e Storia della mia famiglia, serie Netflix – e c’è l’impegno sociale che da sempre Caiazzo porta avanti con passione: “Non mi ritengo un attivista – spiega – l mio impegno sociale è figlio di un’esigenza creativa che si fa viva quando ci sono messaggi da veicolare”.
Body shaming, violenza contro le donne, sicurezza digitale, sono tutte questioni che Caiazzo affronta sotto la lente della sua sensibilità, un dato da cui non prescinde: “Sensibilità – spiega – è la parola chiave. Se scelgo certi temi è perché dal punto di vista empatico me li sento addosso”. Fino al rapporto con i social, che Caiazzo definisce controverso: “A volte – confessa – ne sono totalmente risucchiato. In un certo periodo ho cancellato Tiktok perché mi rendevo conto che mi rendeva meno costruttivo. I social hanno dei contro, ma non li demonizzo,non possiamo ignorare il fatto che esistono. Bisogna capire il modo migliore per utilizzarli”.
Modelli ne ha il giovane Caiazzo? “Tanti – dice confessando una passione fortissima per Marlon Brando – e cambiano a seconda dei periodi. In particolare Fabrizio Gifuni e Luca Marinelli. Mi piacciono tantissimo”. Il sogno nel cassetto è tornare a teatro: “Vorrei portare in scena qualcosa scritta da me. Credo che sia arrivato il momento per farlo”
Rosolino racconta il valore dei sogni e dello sport: per la mia carriera nessun rimpianto
È cominciata sulle note del valzer numero due di Dmitri Shostakovich la quinta giornata della prima edizione di Giffoni Sport. Si è concesso a un ballo (letteralmente) con gli ambassador di Giffoni Sport, niente popo di meno che il campione di nuoto Massimiliano Rosolino. Ha parlato di sogni, di olimpiadi e soprattutto dell’importanza dello sport: “É meglio un brutto sogno che non avere sogni. Il tuo sogno lo puoi trasformare, nello sport puoi trasformare una brutta giornata con un altro finale, lasciando la polemica a chi non pratica e preoccupandoti di cambiare la storia.” Lo sport può anche trasformare i posti, ad esempio Napoli dove lui è stato con Sport e Salute: “grazie a Maradona i turisti hanno rivalutato un turismo che è un turismo buono, in un posto dove c’è la voglia di farsi notare per le cose belle e Napoli è sempre stata così.”
Fra un aneddoto e l’altro Massimiliano ha raccontato l’esperienza ai “fornelli” nata anche per necessità: “Io la carbonara la faccio meglio di tutti quanti, sono un aspirante chef anche per necessità. Con lo sport ho iniziato a cucinare e anche lo sport è fatto di ingredienti e tocca noi valorizzarne uno più di un altro mettendoli insieme nel modo giusto.” L’importanza dello sport ha avuto anche riscontro in Ballando Con Le Stelle, a cui ha partecipato: “Quando ho fatto Ballando, grazie a quello che ho avuto modo di imparare nello sport, sono riuscito a pianificare tutti i 100 giorni di durata del prgramma. Ho imparato grazie alla gestione sportiva come arrivare pronto e come gestire le energie”.
Riguardo al sistema sportivo italiano: “Abbiamo bisogno di sostegno e appartenenza: dobbiamo avere un cuore sportivo nello sposare dei progetti che vadano avanti anche senza i riflettori. Il movimento è sport. […] Bisogna investire in quello in cui ancora non siamo bravi, riqualificare dalla palestra piccolina e spiegare che la cultura sportiva aiuta. Un giorno voglio poter dire che mia figlia deve uscire da scuola per motivi sportivi, questo è il traguardo. Perché poi un italiano se arriva in finale se lo mangia l’avversario, ma ci deve arrivare.” Parlando invece delle olimpiadi: “I nostri italiani li vedo competitivi, penso che Parigi 2024 saranno dei grandi giochi olimpici. Anche Tokyo lo è stata ma venivamo dal Covid quindi tanti atleti sono usciti dal flow. […] Lo sport va praticato perché ti piace e devi essere fiero della tua prestazione anche se non la vede nessuno. Io divento pazzo dove non c’è la dipendenza, l’effetto collaterale dello sport”.
Gli ambassador gli hanno poi chiesto un’opinione rispetto alle ultime dichiarazioni di Phelps che affermava di poter competere anche ai tempi di oggi: “Non ho rimpianti. La mia carretta l’ho spinta fino alla fine. Non conosco la parola gestione, conosco quella “campione”. Phelps ai giorni d’oggi? mi piacerebbe vederlo. Ma io non ce la farei, ho dato tutto. C’è un momento per abbandonare, per quanto difficile.” Per concludere Massimiliano ha commentato anche il tema dell’edizione di Giffoni di quest’anno, l’illusione della distanza: “Nello sport non vince chi è più talentuoso, ma vince l’ossessione. Guai a fare l’ultima bracciata lenta. Bisogna arrivare fino all’ultimo centimetro. L’illusione per noi è quella di poter rendere breve qualcosa di estremamente lungo.”
Ivan Cotroneo e Vittoria Schisano: la nostra lotta ai pregiudizi
Ivan Cotroneo e Vittoria Schisano arrivano al Giffoni Film Festival, forti del successo della serie Netflix, prodotta da Banijay Studios Italy, La vita che volevi, scritta con Monica Rametta e diretta dallo stesso Cotroneo, per incontrare i giffoner dei workshop +18, in sala verde. Un incontro brillante e profondamente stimolante per i ragazzi e le ragazze di #Giffoni54. Al centro del dibattito, ovviamente, la serie tv che pone sotto la lente d’ingrandimento un confronto tra maschile e femminile, sgretolando tutti gli stereotipi di genere e, attraverso la forza di un sentimento universale come l’amore, fotografare la società odierna, in continua evoluzione.
Prima volta a Giffoni per Vittoria Schisano, che nella serie interpreta il ruolo di Gloria, una donna transgender che si scopre genitore di un ragazzo di 15 anni. Non sono mancate le curiosità poste a cuore aperto da parte dei partecipanti al workshop +18, a cui l’attrice non s’è sottratta, regalando alla platea momenti di riflessione e di profonda intimità: “Un personaggio pubblico ha un dovere morale verso chi l’ascolta, nelle interviste e non solo. Nel tempo mi sono raccontata, anche con immaturità, poi ho deciso di emanciparmi dalla mia storia, che non significa rinnegarla. Sono Vittoria Schisano e sì, ho fatto un percorso transgender, ma sono anche una moglie, una figlia, tante cose. Dobbiamo imparare a dare un peso alle parole e dobbiamo capirlo per primi noi adulti, altrimenti come si può pretendere che i giovani non seguano lo stesso esempio? A voi dico di insegnare agli adulti quell’educazione che vi appartiene, perché il vero pregiudizio appartiene agli adulti e non ai giovani”.
Con i giffoner, Vittoria Schisano ha avuto l’occasione di ripercorrere alcune fasi della sua vita e questa nuova esperienza sul set, che ha rappresentato un’importante pedina nel suo percorso artistico: “Sono nata in una famiglia semplice e sin da quando avevo quattro anni ho sempre saputo, dentro me, di essere Vittoria. La mia adolescenza non è stata semplice, ma la prima vittima del pregiudizio sono sempre stata io. Avevo paura di essere ciò che sentivo di essere, non avevo rispetto per me stessa. Nel cinema, nella televisione, non c’erano delle rappresentazioni che mi facessero sentire a mio agio con me stessa ed è per questo che sono fiera di questa serie, anche grazie ai messaggi che mi stanno arrivando da parte di genitori che riescono a capire davvero, attraverso gli insegnamenti de ‘La vita che volevi’, chi sono i loro figli”.
“Giffoni è un posto unico al mondo e sono sempre grato di venire qui. È la ‘comunità’ che si crea a Giffoni la vera magia” afferma con emozione Ivan Cotroneo, di ritorno al Festival, che considera ormai una seconda casa. A lui le domande più tecniche, sul mondo della cinematografia e cosa si nasconde dietro la realizzazione di un’opera, da parte dei partecipanti al workshop: “Chi racconta storie, come ho intuito all’inizio del mio percorso, ha una responsabilità nei confronti dei personaggi che racconta perché questi influiscono sul mondo. Non bisogna cadere nei cliché o nel ‘tokenismo’, non è così che si racconta un personaggio. Chi lo dirige ha la responsabilità civile e politica della sua rappresentazione”.
In tanti chiedono a gran voce una seconda stagione della fortunata serie Netflix. Tale richiesta è passata anche per Giffoni, ma su questo Cotroneo ha mantenuto il riserbo: “’La vita che volevi’ nasce come limited series. Sono dell’idea che le storie non vadano spremute, ma se dovesse arrivare l’idea per una storia altrettanto forte come quella raccontata nella prima stagione, allora penseremo alla sua realizzazione” e aggiunge: “Di certo questa storia crea un precedente, sia nella narrazione di questo tema che nel protagonismo di Vittoria Schisano, di cui mi auguro sia stata sdoganata la capacità di essere una protagonista femminile di grande livello”.
Andrew Howe: sarà una grande Olimpiade
Quinto pomeriggio del Festival ed ennesimo incredibile ospite davanti agli ambassador di Giffoni Sport: oggi Andrew Howe è stato ospite di una sala gremita di ragazzi di tutta l’età, a cui ha raccontato l’atmosfera che si respira in un villaggio olimpico, l’incontro con alcuni grandissimi dello sport come Kobe Bryant, il rapporto con l’ansia e molto altro ancora.
Inizialmente Andrew ha parlato dei giochi olimpici che prenderanno il via fra due giorni: “Che Olimpiadi saranno? Beh siamo pur sempre a Parigi, saranno dei giochi all’insegna della moda, c’è anche la pista viola. Scherzi a parte, sarà una grande Olimpiade. Parigi la renderà fantastica. Ci andrò tra poco ma ci sono stato e c’era davvero una bella atmosfera. Credo che sarà una cosa nuova e non vedo l’ora di vedere tutte le novità”. Parlando invece del team dell’atletica in vista proprio dei giochi, e nello specifico di Furlani: “La vedo bene infatti sarò li a tifare e non vedo l’ora di vedere questa olimpiade perché ci divertiremo perché l’Italia sta tirando fuori dei campioni incredibili. In questi ultimi anni è una gioia incredibile perché abbiamo passato anni veramente difficili. Furlani io lo conosco da quando è nato, è un fenomeno. Un misto fra Mike Powell e Bob Beamon praticamente.”
Rispetto alla sua esperienza invece: “Nelle Olimpiadi purtroppo non ho mai reso al meglio perché o arrivavo da infortunato o ero troppo giovane, però l’atmosfera la porto sempre nel cuore.” Andrew ha poi raccontato proprio l’atmosfera che si respirava nel villaggio, ricordando con emozione l’incontro con idoli come Kobe Bryant: “È stato veramente bello perché arrivavo lì e vedevo che facevano la fila come la facevo io, sono come me, mangiano quello che mangio allora forse posso arrivare anche io”.
Rispondendo alle domande degli ambassador il velocista ha anche raccontato un po’ quali erano i suoi idoli e le sue ambizioni: “Da piccolo avevo tanti idoli. I ragazzi di oggi guardano i calciatori o i tennisti, mentre i miei idoli forse non sanno neanche chi sono. Mi sono sempre posto l’obiettivo di diventare migliore di loro e di diventare migliore di tutti, che è quello che devono fare i ragazzi di oggi. E ai ragazzi della generazione che sta gareggiando adesso dico sempre di prendere spunto ma prefissarsi di fare meglio”.
Per concludere Andrew ci ha anche raccontato il suo rapporto con l’ansia ai tempi delle gare e del suo prossimo futuro: “Sono uno che gestisce l’ansia. L’ansia è una cosa che va gestita altrimenti non riesci a rendere come dovresti. Pensare troppo non aiuta. Lo staff in questo svolge un ruolo importantissimo. Le persone che lavorano con te sanno sempre cosa dirti. […] Il futuro prossimo? Stiamo pensando a un futuro nel mondo del cinema e mi piacerebbe molto”. E quale posto e platea migliore di Giffoni e i nostri ambassador per parlarne.
I Sansoni: la risata è una cosa seria
Nella sesta giornata del festival arriva a #Giffoni54 il duo comico siciliano composto da Fabrizio e Federico Sansone, in arte I Sansoni, fratelli nella vita e colleghi nel lavoro. Il successo li ha travolti come un tornado: sul web hanno ottenuto più di 400 milioni di views in soli tre anni. La loro comunicazione è crossmediale: dal teatro sono migrati al web e prossimamente faranno il loro primo debutto sul grande schermo con il film “E poi si vede”, distribuito da Warner Bros.
La comicità della coppia è travolgente, tuttavia lascia spazio anche a riflessioni sulle problematiche che affliggono le nuove generazioni.
«L’apparato comico-satirico nasce in famiglia, voi siete fratelli. Come è nato questo sodalizio?» inizia così il dibattito in Sala Blu. «È strano lavorare tra fratelli, noi siamo molto diversi. La diversità crea sempre uno scontro, talvolta un dibattito, ma sono state proprio queste diversità a far venir fuori la voglia di dire qualcosa. I punti di vista diversi possono generare anche la risata. La risata è una cosa seria. Il nostro motto è “La risata è una conseguenza”. È grazie a quelle conseguenze che per un attimo dimentichiamo chi siamo».
Molto vicine ai ragazzi di IMPACT le tematiche rappresentate nei video comici del duo: «Cerchiamo di rappresentare la generazione che va dai diciotto ai trent’anni».
Nel 2025 i fratelli saranno per la prima volta protagonisti di un film: «Teniamo tanto alla capacità di trasformarci, di passare dal web al cinema. Si tratta di un film che vuole simboleggiare la nostra generazione, spesso ci sentiamo dire dalle generazioni passate “C’è un problema con il cambiamento climatico…vabbè poi si vede”, ma quel “poi si vede” è ormai arrivato».
«Cosa vi distingue da generazioni di comici che vi hanno preceduti?», chiedono i giffoner. «Il contesto che c’è attorno, il mezzo. Gli anni 2000 erano gli anni della televisione, oggi il web ha preso il suo posto. La comicità cambia sempre, sapersi adattare è fondamentale» e ancora «I nostri contenuti li abbiamo sempre chiamati “webmetraggi”, poi quando sono arrivati i reel e Tiktok abbiamo riadattato le nostre idee a quella velocità. Oggi va tutto troppo veloce e la soglia di attenzione si è abbassata. C’è un distacco netto tra una narrazione di due ore e mezza e una di trenta secondi. Questo però è un bene per il cinema, andare veloci col telefono crea una differenza netta con la settima arte».
Il dialogo si apre anche a tematiche di attualità, come la censura: «Come percepite il ruolo della comicità nel promuovere il dialogo su temi importanti? Che ne pensate della censura che è ultimamente presente in tv?». «La censura si ha quando qualcuno cerca di bloccare un pensiero», rispondono. «Se pensiamo a Falcone e Borsellino capiamo quanto la censura li abbia fatti nascere, piuttosto che morire. È stato controproducente, loro vivranno in noi per sempre. Purtroppo se siamo qui nel 2024 a parlare di censura vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato».
I Sansoni si esprimono poi in merito alla sicilianità che caratterizza i loro prodotti: «Noi pensiamo in siciliano. La nostra sicilianità è molto presente soprattutto nell’accento, l’accento è una targa, ma allo stesso tempo una grande medaglia al valore perché spesso facciamo crociate per cercare di distruggere gli stereotipi. Bisogna parlarne, scherzarci su, magari farsi una risata. È in primis una lotta personale contro le generalizzazioni sulla nostra terra» e ancora, «Con i video proviamo ad abbattere tutte le diversità, ad avvicinare il nord al sud». Ciò dimostra che la comicità può fare da ponte tra le differenze, abbattendo il muro dei pregiudizi. Anche in questo modo si può far crollare l’illusione della distanza.