L’interessante dibattito scaturito nel corso della presentazione del saggio-documento “Il ’68 degli irpini” ha evidenziato molti aspetti significativi del periodo sessantottino: vera rivoluzione, passione civile, cambio di mentalità, nuovi fermenti? Sono stati interrogativi preziosi che hanno delineato, complessivamente, un notevole e autorevole contributo da consegnare alle generazioni attuali, come sforzo generoso ed efficace di testimoni che hanno vissuto direttamente la vicenda sessantottina, consapevoli che il filo della memoria va alimentato con il sereno convincimento che le istanze del ’68 sono tuttora presenti nell’attuale momento di smarrimento, probabilmente di deleteria inerzia, delle soggettività fondamentali dell’attuale tessuto civile e sociale. Ma una domanda sottaciuta, ma sommessamente avvertita dai relatori e dal numeroso e qualificato pubblico presente, emerge dall’articolato dibattito sulla tematica che il volume affronta: il ’68 delinea una utopia tradita o un percorso ancora in atto? Prima di tentare una risposta all’interrogativo avverto lo sforzo personale di capire che cosa in fondo è l’utopia e cos’è il sogno di una generazione. Talvolta percepisco l’utopia come un’illusione, una pretesa appagante di definire la realtà riscrivendola secondo canoni di perfezione determinati a partire da noi, dai nostri bisogni, dalle nostre istanze interiori e ideali. Se è così mi accorgo subito che non ne abbiamo bisogno, possiamo e dobbiamo farne a meno. Dobbiamo farne a meno perché è troppo forte la consapevolezza che un mondo perfetto, una città ideale non stanno da nessuna parte e solo gli improvvisati ricercatori pensano di approdare sotto questa o quell’altra bandiera. Probabilmente c’è un’altra utopia che è quella di sognare con i piedi a terra, con il dinamismo inteso come paziente cammino, intrapreso con il costante desiderio di fare i conti con il limite e la fisiologica progressità della storia. Solo così il sogno diventa sguardo aperto e lungimirante capacità di scommettere e di rischiare attraverso percorsi di relazioni, di incontro, di progettualità condivisa, di impegno perseverante che alimenta la speranza. A questa utopia, a questo sogno, non possiamo rinunciare perché significherebbe cadere, impietriti dal peso di una nostalgica visione di una realtà che non può essere riscritta secondo parametri di disumanità. Nel contempo significherebbe soffocare irresponsabilmente quel desiderio che è in noi, che ci fa iniziare ogni giorno con un impegno umano e sociale da assolvere, che ci affranca dal rischio di diventare automi in un momento storico della nostra esistenza in cui tutto è tecnologico, tutto è affidato ad automatismi che determinano bioritmi che non solo più tali. Allora ci accorgiamo che non c’è una realtà di contrapporre all’utopia. Non c’è una cruda quotidianità da contrapporre all’ideale. C’è quindi una capacità di coniugare idealità e speranza, da porre a base del nostro cammino esistenziale, civile e politico. Pur non negando le nostre paure attuali, ci accorgiamo di non poter negare le nostre istanze interiori di speranza, di solidarietà, di ricerca di giustizia, oltre i perimetri canonici di un paradigma culturale e politico che il ’68 voleva superare. Se questo è l’approdo possibile, dopo mezzo secolo di sforzi interpretativi, e se quella delineata è l’utopia che è dentro di noi, possiamo concordare col nostro Vescovo, Mons. Arturo Aiello, che il ’68 non fu solo utopia, ma una vera rivoluzione che ha generato speranza il futuro.
di Gerardo Salvatore edito dal Quotidiano del Sud