Niente da fare. Anche questa volta, alla vigilia del primo appuntamento elettorale veramente “europeo”, con al centro il confronto fra due visioni contrapposte del futuro della nostra Unione, il dibattito politico italiano non è riuscito a divincolarsi dai temi domestici, anche i più provinciali. Ancora scossi dalla Brexit, peraltro impantanata in un braccio di ferro senza fine tra il governo di Theresa May, il parlamento di Westminster e i negoziatori di Bruxelles, i 27 condòmini dell’Ue e i loro elettori sono almeno consapevoli di dover scegliere fra più integrazione o più isolamento, alla ricerca dell’assetto più efficace per consentire all’Europa di avere un ruolo nel confronto finora tendenzialmente bipolare Usa-Cina. Dibattito dai toni elevati, dialettica anche aspra ma all’altezza della posta in gioco. Così quasi ovunque, dalle coste portoghesi dell’Atlantico ai paesi baltici, dai confini orientali al nucleo centrale franco-tedesco della vecchia Europa. Ma in Italia no. Qui da noi l’appuntamento del 26 maggio è banalmente diventato il secondo tempo delle politiche del 4 marzo 2018 o, se vogliamo, la verifica della innaturale alleanza fra due partiti che si erano combattuti aspramente in quella campagna elettorale poi risolta con il famoso “contratto” di governo che sempre meglio, alla luce delle polemiche di questi giorni, si è rivelato essere uno spregiudicato accordo di potere. Con toni sempre più accesi fino a sfiorare la rissa, con la consueta tendenza alla personalizzazione delle posizioni e con il richiamo pavloviano alla questione morale, da sempre invocata quasi da ogni politico italiano per scavare un solco fra sé e gli altri. Per accendere gli animi dei suoi, Salvini non poteva essere più esplicito: “il 26 maggio non sono elezioni europee, ma un referendum tra la vita e la morte”. E Di Maio, non appena le inchieste giudiziarie hanno coinvolto il partito dell’alleato-avversario: “Il 26 maggio la scelta sarà fra noi e questa nuova tangentopoli”. Per non essere da meno, Zingaretti ha scelto le ultime giornate di campagna elettorale per presentare il programma di un governo di centrosinistra che è di là da venire. Così, la competizione fra i due vicepremier, la corruzione e la ricerca piddina di un nuovo protagonismo diventano i temi dominanti di un confronto politico rovente, mentre l’Europa resta ancora una volta fuori dalle urne. Ma sarà così per poco, perché subito dopo il 26 maggio sarà proprio l’Europa a bussare di nuovo alle porte dell’Italia per presentare un conto salato. I dati dell’economia sono allarmanti: anche se l’Istat nella nuova versione gialloverde si affanna a sfornare cifre rassicurati, la produzione industriale e l’occupazione ristagnano, lo spread è salito di cento punti in un anno, la fiducia delle famiglie è peggiorata, le misure messe in campo dal governo (reddito di cittadinanza e quota cento) non danno i risultati sperati, tanto che i ministri che le hanno proposte e imposte al parlamento parlano d’altro e inseguono nuovi fantasmi.
Allora siamo alla resa dei conti? Paradossalmente, potrebbe essere proprio l’avvicinarsi del redde rationem con l’Europa, trascurata per tutta la campagna elettorale, a riavvicinare in extremis i due riluttanti inquilini di palazzo Chigi. Se le urne del 26 maggio non dovessero decretare un vincitore indiscusso della tenzone, e se le iniziative giudiziarie della magistratura non rendessero impossibile per i Cinque Stelle il prosieguo della collaborazione con una Lega ridotta a più miti consigli, le ragioni per rinnovare consensualmente il patto di governo ci sarebbero tutte, a cominciare dall’opportunità di rispondere con una voce sola alla probabile richiesta di una urgente manovra correttiva per mettere in sicurezza il bilancio dell’azienda Italia. Sarebbe comunque un compromesso al ribasso, non certo all’altezza della sfida che la competizione internazionale ha lanciato all’Europa e all’Italia.
di Guido Bossa