Di Monia Gaita
Mi chiamo Andrea e sono uno studente fuori sede.
Vivo in una casa piccola con altri 3.
Ho la camera con le pareti spoglie
e un tavolo dall’aria assente sottoposto alla finestra.
Qui l’autunno cala con nebbie impenetrabili
e per la strada la gente passa svelta,
caccia dalla tasca il rotolo delle incombenze
e si amalgama al malessere sordo delle insegne al neon.
La città è grande.
Ci sono vicoli – mi dicono – da non avvicinare,
con il fior fiore di canaglie, torvi e trafficanti.
Ma a me non interessa.
Di questa umanità scolorita non m’importa.
La cinghia alle domande si è spezzata
e penso solo a riverire i miei doveri.
Il giorno dopo come il giorno prima
tra l’università dalle aule tristi e stufe di parole
e il ritornare a piedi nel clima artificiale degli uffici
pure quando piove.
Dico che non m’importa di questa umanità,
ma accade a volte che i venditori di fazzoletti di carta
e di calzini sintetici mi guardino
con le pupille friabili e solenni.
Allora l’anima mi scappa col suo filo
nella razza dei codardi,
di quelli che dovrebbero soltanto vergognarsi.
Mi sento anch’io uno sconfitto,
un randagio che dorme ogni notte in una piazza diversa,
senza cuscino e senza letto
e per cattiva abitudine annusa il buio,
lo mastica, s’infetta.
Si appiccica alle cose, le avvolge in pacchi.
Un esercizio inutile:
il male non si spiega.